L’epilogo

’Ndrangheta, ascesa e declino dell’inafferrabile “Re del pesce”: fine della corsa per Franco Muto

La condanna a vent’anni per associazione mafiosa segna la fine della carriera di uno dei boss più influenti della Calabria che alla fine degli anni 70 iniziò a farsi largo con la forza (ASCOLTA L'AUDIO)

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di Marco Cribari
17 settembre 2022
11:34
Franco Muto
Franco Muto

La notizia della sua condanna definitiva lo ha raggiunto nel chiuso dei domiciliari. Dovrà scontare vent’anni per associazione mafiosa, Franco Muto; e per lui, che di anni ne ha oggi 82, questo può voler dire il ritorno in carcere. Stavolta, per non uscirne mai più.  

Il processo “Frontiera”, conclusosi giovedì notte in Cassazione,  ha  sancito anche questo: la fine della corsa di uno dei boss più influenti della Calabria, dotato di ottime entrature sia nella Società maggiore reggina che nella camorra napoletana; l’uomo che partito da un quartiere popolare di Cosenza e trasferitosi da giovanissimo nella piccola Cetraro riuscirà a proliferare in edilizia, narcotraffico ed estorsioni, arrivando a costruire un impero nel settore dei prodotti ittici grazie un racket spietato e totalizzante esercitato su oltre 150 km di costa.


Eppure, in origine, pochi pronosticavano per lui un futuro criminale così radioso.

Gli esordi

La sua prima denuncia è datata 12 ottobre 1961 per violenza privata e lesioni, e negli anni successivi ne seguiranno altri per risse, contrabbando, resistenza a pubblico ufficiale, tutte attività considerate poco onorevoli dalla ’ndrangheta.  Sembra la parabola di un delinquente comune, uno dei tanti. E invece no. Le cose cambiano alla fine dei Settanta, quando lui e la sua banda entrano nel conflitto di mafia in corso a Cosenza, schierandosi al fianco del gruppo di Franco Pino contro quello di Franco Perna. È in quel periodo che Muto fa il salto di qualità, stringe rapporti e alleanze, si fa largo con la forza.

I delitti impuniti

Il decennio, infatti, si chiude con due omicidi eccellenti e destinati all’impunità: nella vicina Guardia Piemontese, cade Lucio Ferrami, imprenditore coraggioso e contrario al pagamento del pizzo; a Cetraro, invece, viene freddato il segretario della Procura di Paola, Giannino Losardo, anche consigliere comunale del Pci. «Tutto il paese sa chi mi ha sparato» dirà quest’ultimo in punto di morte. Tutti sanno, ma nessuno parlerà.  Muto è sospettato fin dalla prima ora per ambedue gli agguati, ma sarà poi scagionato da ogni accusa. Di assoluzioni ne guadagnerà tante altre negli anni successivi. Sospettato di avere messo la firma su decine di omicidi, non incasserà mai neanche una condanna. Il suo gruppo è affiatatissimo, cambiano gli interpreti ma non la sostanza: da lì, a tutt’oggi, non è mai uscito un collaboratore di giustizia. 

Gli imputati eccellenti

Gli investigatori però non demordono, e lo bersagliano di denunce, misure cautelari e sorveglianze speciali. “U luangu” – lo chiamano così per la sua statura vicina al metro e novanta – entra ed esce dalle carceri, vive lunghe stagioni da latitante e altre al confino fuori dalla Calabria. Vicino o lontano, la sua ombra non abbandona mai Cetraro e continua a estendersi su tutta la costa. L’ospedale locale è considerato un suo feudo, mentre il processo che nel 1986 lo vede alla sbarra per tredici omicidi – fra cui quello di Losardo – segna anche, in termini di sospetti, l’esistenza di una strana associazione a delinquere: con lui ne fanno parte magistrati, ex sindaci, medici, dirigenti sanitari e finanzieri. Finirà tutto in una bolla di sapone, ma questa vicenda – al pari dei suoi paventati e mai accertati rapporti con la massoneria – ne accresce ulteriormente la leggenda nera.

L’unica condanna

Le Procure continuano a stargli addosso, ma spesso con scarso costrutto e con risultati paradossali. In un caso, i Tribunali statuiscono l’esistenza della cosca Muto, ma senza di lui, che intanto è stato prosciolto in udienza preliminare. Un altro processo, invece, si conclude con la sua condanna per concorso esterno al clan di cui, nelle intenzioni di partenza, avrebbe dovuto essere a capo. Accade anche questo. 

Lo incastrano finalmente nel 1992, al termine di un’inchiesta che consacra il suo mito dolente, quello di “Re del pesce”,  un nom de crime che diventerà il suo tratto distintivo. Gli assegnano dieci anni per associazione mafiosa ed è una condanna che rimarrà isolata, per il trentennio successivo non ne seguiranno altre. Fino a giovedì notte.

Epilogo

A poco è valso che, durante il processo “Frontiera”, diversi pentiti lo abbiano descritto come un boss in pensione e da tempo lontano dalla lotta; il risultato è che, attuale o no, “Ciccio il re del pesce”, signore del Tirreno cosentino, è stato incastrato proprio al crepuscolo della sua lunga e oscura carriera dopo che ben tre generazioni di investigatori lo hanno inseguito, spesso invano, per più di mezzo secolo. Giustizia è fatta, insomma, o magari no. Forse solo rivincita, forse vendetta. 

Giornalista
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