Alla fiducia concessa dallo Stato ha risposto con la fuga. Andrea Cavallari, 26 anni, condannato a 10 anni e 11 mesi per la partecipazione alla famigerata “banda dello spray” — responsabile di furti e rapine culminati nella tragedia della discoteca di Corinaldo — è solo l’ennesimo detenuto a non rientrare in carcere dopo un permesso. Studente modello, fresco di laurea in Giurisprudenza, Cavallari era in semilibertà per motivi di studio. Avrebbe dovuto fare ritorno in carcere una volta discussa la tesi. Invece, ha scelto di sparire. Di lui, nessuna traccia.
Un caso eclatante? Sì, ma non isolato. Anzi, è l’ennesimo di una lista che si allunga giorno dopo giorno nell’indifferenza generale. «Siamo al 700% in più di evasioni su base annua rispetto al periodo pre-2023», denuncia con amarezza Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria. «Nel 2025 siamo già a circa 340 detenuti fuggiti: una media costante, già registrata anche lo scorso anno. È un'emergenza silenziosa, di cui nessuno vuole parlare».

E il problema non è soltanto numerico. È politico, culturale, giuridico. A essere sotto accusa è l’intero impianto della normativa che regola i permessi ai detenuti, a partire dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che consente di uscire dal carcere per lavoro o studio. In teoria, un istituto pensato per favorire il reinserimento. In pratica, un’autostrada verso l’evasione, come dimostrano i numeri. Perché la fiducia, quando si trasforma in ingenuità, smette di essere un valore e diventa un rischio.

Il sindacato della polizia penitenziaria lo ripete da mesi, inascoltato: serve un intervento immediato. Serve una revisione profonda delle condizioni che permettono ai detenuti di varcare la soglia delle carceri con troppa leggerezza. Serve un freno alla retorica del “riscatto”, che in certi casi — come quello di Cavallari — viene usata come paravento. Il ragazzo ha ottenuto una laurea in Giurisprudenza, certo. Ma non ha impiegato la sua conoscenza del diritto per dimostrare pentimento o maturità. L’ha usata, al contrario, per dileguarsi.

E non è il primo. Di Giacomo cita un altro episodio gravissimo: quello di Salvatore De Maria, evaso durante un permesso lavoro e poi responsabile di un femminicidio prima di togliersi la vita. Era il 2023, un caso che aveva indignato l’opinione pubblica. Ma oggi, a quanto pare, è già stato dimenticato. «Evidentemente – commenta amaramente Di Giacomo – non abbiamo imparato nulla. Anche De Maria era uscito sulla base dell’articolo 21. Anche lui aveva avuto fiducia. Il risultato? Un’altra tragedia».

Nel frattempo, i numeri parlano. E sono numeri impietosi: 340 evasi in un anno, con un ritmo che sembra ormai strutturale. Ogni giorno che passa, un detenuto approfitta della debolezza del sistema per dileguarsi. E ogni giorno che passa, lo Stato sembra più incapace di reagire. Le carceri scoppiano, le risorse sono scarse, il personale penitenziario è allo stremo. Ma ciò non giustifica il lassismo con cui si concedono permessi che non vengono controllati, né revocati alla minima infrazione.

Il caso Cavallari, in questo contesto, è solo la punta dell’iceberg. Colpisce perché riguarda un giovane condannato per fatti gravissimi, legati alla morte di sei persone. Colpisce perché coinvolge un ragazzo che, sulla carta, sembrava reinserito. Ma la verità è che il problema è molto più esteso. È un problema sistemico. E chi lavora ogni giorno nelle carceri lo sa bene.
«Non possiamo continuare a fingere che tutto vada bene», conclude Di Giacomo. «Non possiamo permettere che ogni evasione diventi una notizia di mezza giornata, dimenticata appena dopo il titolo. Serve una presa di coscienza politica. Serve una riforma vera, e subito».
Intanto, Andrea Cavallari è ancora in fuga. E con lui, altri centinaia di detenuti che lo Stato non è riuscito – o non ha voluto – trattenere. Quando si perderà la prossima vita per colpa di un permesso concesso con troppa leggerezza, ci si chiederà se si poteva evitare. La risposta, purtroppo, è già scritta.