«Ci eravamo presi una fetta dello stadio». Risalgono indietro nel tempo, forse intorno al 2011 o il 2012, i rapporti fra la curva della Juventus e i boss della 'ndrangheta. Ne ha parlato oggi in tribunale a Torino uno dei collaboratori di giustizia più importanti della Dda piemontese, il 45enne Vittorio Raso.

L'uomo ha testimoniato in videoconferenza (voltando le spalle alla telecamera per non mostrare il viso) in un processo per narcotraffico e, quando gli è stato chiesto come avesse conosciuto uno degli imputati, ha tirato in ballo la faccenda del bagarinaggio: «Vendevamo i biglietti per le partite, ce li passavano gratuitamente gli ultras del gruppo “Bravi Ragazzi"». Nel 2016 gli arresti dell'inchiesta Alto Piemonte avevano svelato per la prima volta gli intrecci fra la tifoseria organizzata e le cosche.

Era emerso che il rampollo di una famiglia legata al clan Pesce-Bellocco era riuscito a intrufolarsi fra gli ultras e persino a incontrare i dirigenti della società bianconera (che nel corso dei processi fu definita "vittima inconsapevole" di circostanze sfuggite al suo controllo). Uno dei leader della curva spiegò che il giovane era «uno da tenere buono nel caso fossero sorti dei problemi». Ma più che la passione sportiva erano i biglietti a motivarne l'attivismo.

Le parole di Raso hanno retrodatato di qualche anno l'interessamento della 'ndrangheta verso un business che, a quanto pare, poteva fruttare più di 20 mila euro a partita. Pacchetti di tagliandi in cambio del mantenimento dell'ordine. Raso è stato arrestato il 23 giugno 2022 in Spagna, dove si era stabilito cinque anni prima e da dove riforniva di hashish e marijuana il mercato italiano. Il suo collaboratore numero uno fu proprio l'amico che aveva conosciuto ai tempi dello stadio.

«Nel 2019 me lo arrestarono - ha raccontato - ma rimasi in contatto con il suo socio, un ragazzo di Bosconero (Torino - ndr)». Un po' alla volta il giro si allargò al punto che uno dei corrieri «faceva su e giù per tutta l'Italia e non riusciva a stare dietro a tutto».

D'altra parte era stato lo stesso Raso a intensificare l'attività: «Un anno dopo il mio arrivo in Spagna fui dichiarato latitante, e un latitante deve sostenere molte spese. Avevo bisogno di risorse economiche». I quattrini che incamerava gli avevano permesso di stabilirsi, per qualche tempo, in una delle zone più esclusive di Barcellona. Ma era pur sempre una vita da latitante. «Non ce la facevo più», ha detto in aula. Aggiungendo che alla base della decisione di collaborare con la giustizia ci fu il turbamento che provò quando fu arrestata la compagna.