Sta iniziando il nuovo anno accademico nelle università italiane. Aule piene, matricole spaesate, studenti che ritornano dopo l’estate tra esami, tirocini e laboratori. Ma dietro l’entusiasmo e la voglia di ricominciare, i problemi restano sempre gli stessi.

Alla Sapienza di Roma, come a Milano, Bologna o Torino, il caro affitti continua a essere l’incubo principale: i posti letto pubblici coprono appena il 3% del fabbisogno reale e il resto è lasciato al mercato privato, dove una stanza singola può superare tranquillamente i 500 euro al mese. Per chi viene dal Sud, come tanti studenti calabresi, la situazione è ancora più pesante. Nella speranza di tornare a vivere in Calabria, si trovano a dover sostenere un peso insostenibile per molte famiglie: viaggi interminabili, abbonamenti ai trasporti che divorano il budget, libri che costano centinaia di euro a semestre. Per molte famiglie ogni anno universitario diventa una montagna da scalare, e la promessa di un’istruzione accessibile sembra sempre più lontana.

Ogni settembre assistiamo al solito copione: annunci di nuove residenze universitarie, fondi straordinari, piani per il diritto allo studio. Eppure, nella vita concreta di chi studia, poco cambia. Gli studenti denunciano un immobilismo istituzionale che lascia ragazzi e famiglie soli davanti a spese che aumentano di anno in anno. Le borse di studio arrivano in ritardo o coprono solo una parte degli aventi diritto. I bandi per l’edilizia universitaria restano impantanati per anni o si traducono in piccoli interventi che non spostano nulla. La sensazione diffusa è che le istituzioni si limitino a rincorrere le emergenze, senza mai affrontare davvero i nodi strutturali.

Giovani tra attese e disillusioni

Le aspettative dei giovani non sono irrealistiche: chiedono solo di poter studiare senza che il reddito familiare diventi un ostacolo insormontabile. Eppure, troppe volte queste attese si trasformano in frustrazione. C’è chi rinuncia del tutto, chi dilata i tempi di laurea per lavorare, chi si barcamena tra lavoretti malpagati e ore di studio fino a notte fonda. L’università italiana viene presentata come un investimento strategico per il futuro del Paese, ma per molti resta un percorso a ostacoli. I numeri parlano chiaro: l’Italia è tra i Paesi europei con meno laureati e con uno dei più alti tassi di abbandono. Non è mancanza di talento, ma il peso delle difficoltà materiali che schiaccia gli studenti senza risorse solide alle spalle. Le riforme si annunciano a ogni stagione politica, ma gli interventi concreti restano inutili, inefficaci o rinviati all’infinito, mentre una generazione intera vede sfumare la fiducia nel futuro. Dietro le statistiche ci sono storie vere: studenti che tornano a casa la sera dopo ore di lavoro e aprono i libri esausti, ragazzi che condividono appartamenti sovraffollati per risparmiare, famiglie che rinunciano ad altre spese per pagare affitti e tasse. Ogni storia personale racconta di sacrifici silenziosi che spesso restano invisibili, ma che compongono il quadro reale della vita universitaria in Italia.

L’anno accademico si apre con la stessa energia di sempre: ragazzi che vogliono imparare, docenti che cercano di dare il massimo, atenei che provano a restare competitivi. Ma il sistema rimane bloccato da vecchie fragilità che nessuno sembra voler affrontare con coraggio. È il paradosso di un Paese che proclama di voler investire sui giovani, ma lascia irrisolti i problemi che rendono l’università inaccessibile a troppi. Se davvero la politica vuole dimostrare di credere nelle nuove generazioni, deve smettere di limitarsi agli annunci e iniziare a costruire soluzioni vere: alloggi a prezzi sostenibili, borse di studio universali e tempestive, trasporti accessibili, un abbattimento dei costi vivi. Finché questo non accadrà, vincerà la disillusione. E l’Italia continuerà a perdere migliaia di giovani che scelgono di emigrare o rinunciano al sogno di una laurea. Non è solo una questione di numeri o di statistiche: è una questione di dignità. Perché ogni ragazzo che rinuncia a studiare non è solo un talento perso, ma una ferita collettiva. E continuare a ignorarla significa rinunciare al futuro stesso del Paese.