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Pasquale Bonavota: ecco chi è il boss di ‘ndrangheta arrestato a Genova: «Era un capo già a 16 anni»

VIDEO E AUDIO | La scalata criminale del mammasantissima di Sant'Onofrio raccontata dal pentito Andrea Mantella. Dalla faida combattuta da adolescente a fianco di suo padre fino ai traffici di droga e i rapporti con i clan più importanti. Ascolta la voce del padrino in una intercettazione captata dalle forze di polizia 

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di Francesco Altomonte
27 aprile 2023
12:32

La guerra di ‘ndrangheta da adolescente a fianco del padre Vincenzo, i soldi della droga, una fitta rete di rapporti con i maggiori casati di 'ndrangheta calabresi. La scalata criminale di Pasquale Bonavota, l’ultimo superlatitante di ‘ndrangheta catturato questa mattina a Genova, è stata raccontata in più occasioni dal collaboratore Andrea Mantella, l’ex boss di Vibo Valentia diventato collaboratore di giustizia.

Rive di la puntata integrale di Mammasantissima - Processo alla 'ndrangheta dedicata a Pasquale Bonavota.


«Fu Rocco Anello ad aiutare Pasquale Bonavota all’inizio – racconta agli inquirenti il collaboratore di giustizia ricostruendo gli esordi criminali del presunto boss di Sant’Onofrio - loro erano in disgrazia, nel senso che erano inesperti. Il padre era morto ed erano rimasti solo i ragazzi che avevano poca esperienza. Anche i Morabito e i Palamara li aiutarono, con loro c’era un rapporto di comparaggio. Tanto che uno dei Palamara era latitante a Sant’Onofrio».

E se parte dei soldi frutto del traffico di cocaina finiva in Svizzera ad alimentare nuovi traffici, una fetta finiva nelle attività commerciali dei tanti salotti buoni della Capitale. «I Bonavota avevano comprato il bar Luna – racconta ancora Mantella ai magistrati – e poi piazzava le macchinette, sia quelle cosiddette mangiasoldi, sia quelle dei caffè, perché si cerca sempre di legalizzare le attività».

 

Nell’affare degli investimenti a Roma, sarebbero coinvolti anche gli Alvaro. È sempre il collaboratore di giustizia a raccontarlo agli inquirenti indicando un bar ricevitoria in zona Quirinale: «Con Bonavota una volta siamo andati a salutare Carmine Alvaro con cui ero stato in carcere per una storia di sequestri di persona. Era il 2003 e ci ha detto “qui è nostro”».

Mantella durante il suo esame durante il maxiprocesso Rinascita Scott ha evidenziato che «alla morte di Vincenzo Bonavota, era Pasquale il predestinato al comando del clan, ma essendo minorenne, secondo le regole della ‘ndrangheta, non poteva farlo e così la guida della famiglia passò allo zio Domenico Cugliari alias Micu ’i Mela».

La vicinanza con alcuni dei casati di ‘ndrangheta più blasonati e gli intrecci affaristici che hanno consentito, quindi, a Pasquale Bonavota di scalare le gerarchie criminali del vibonese fino a diventare il ricercato numero due nella lista dei latitanti più pericolosa del Viminale, subito dopo Matteo Messina Denaro.

«Io non so – aggiunge Mantella - quando Domenico Cugliari lasciò il timone e subentrò Pasquale Bonavota, ma sin dal 2003 era lui il nuovo capo». E ancora: «Nel 2004, sono certissimo, l’ho incontrato a Roma dopo gli omicidi di Belsito e di Raffaele Cracolici, al Bar Luna, dove alla cassa c’era il fratello Antonio, un ragazzo bravissimo, perbene, studioso, che non aveva nulla a che fare con la ‘ndrangheta ed i fratelli. Qui mi ringraziò e mi disse di continuare ad aiutare i fratelli per continuare gli omicidi e io gli assicurai il massimo appoggio militare».

Pasquale Bonavota non ha ancora una condanna passata in giudicato, ma è considerato un boss di ‘ndrangheta di alto profilo dalla Dda di Catanzaro, oltre che uno dei ricercati più pericolosi d’Italia fino ad oggi. Quella del 49enne di Sant’Onofrio è una storia da romanzo criminale. Quella di un ragazzino cresciuto in un paese del Sud dove il sangue e i morti ammazzati erano all’ordine del giorno.

Una storia vera, segnata dalla ’ndrangheta che incuteva terrore: un boss bambino divenuto uomo. Una storia che gli inquirenti hanno potuto apprendere dalla sua voce, captata durante le indagini dell’inchiesta Uova di drago.

Ascolta l'intercettazione del boss Pasquale Bonavota

 

«Allora, quando hanno sparato a mio zio Saro, che dall’ospedale di Vibo Valentia lo portavano a Reggio, io e mio padre avevamo la pistola addosso. E all’ospedale chi cazzo c’era?! Che avevamo paura che l’ammazzassero… Solo io, sedici anni, e mio padre».

Era il 2007 e per la prima volta un’indagine fotografò la potenza di un clan che aveva insediato un regime di terrore nel suo territorio di competenza. Bonavota si trovava nella sua auto, ignorando che vi fosse una microspia installata dai carabinieri nell’abitacolo. Ed il suo è un racconto che mette i brividi. Già capobastone a 31 anni e il rispetto da chi non gliel’aveva dato, se l’era preso.

Ricorda, Pasquale Bonavota, unico indagato sfuggito alla cattura dopo la maxi operazione Rinascita Scott. Torna indietro all’inizio del 1990, ai giorni in cui, direbbe Mario Puzo, i soldati delle cosche erano ai «materassi». Il 27 gennaio fu assassinato in un agguato Francesco Calfapietra, mentre rimase gravemente ferito lo zio di Pasquale, Rosario Cugliari. Pasquale, troppo giovane per essere considerato un uomo, era solo al fianco di Vincenzo, suo padre, anzi, il patriarca. «Solo io, sedici anni, e mio padre», a vigilare armati sulla vita dello zio Saro, ricoverato in ospedale. Quell’intercettazione così cristallizza la genesi di una lunga storia, i cui dettagli vengono puntellati dal profluvio di pentiti, vecchi e nuovi, fino ai giorni nostri.

Aveva la stoffa del boss a 16 anni, cresciuto a immagine e somiglianza del patriarca. Alle indagini su quella fase della vita di Pasquale Bonavota contribuiscono i racconti dei pentiti, le intercettazioni, le relazioni dei carabinieri e le sentenze. Un temperamento da duro che emergerebbe, secondo gli inquirenti, durante la faida nella quale i Bonavota erano soli e rischiavano di essere annientati dal clan rivale dei Petrolo.

Dovevano reagire, anche se in pochi, anche se soli. Perché solo una cosca sarebbe rimasta in piedi. «Siamo andati ad allenarci con i fucili a sparare - dice in un’altra intercettazione - io, mio zio Lele che non era nessuno ed era pronto a venire con me, e mio zio Bruno. Hai capito chi eravamo?».

Ci sarebbe stato molto sangue e fu per questo che Pasquale suggerì ai parenti di trasferire tutte le donne della famiglia in Francia. «Chi vuole restare - dice - si deve mettere nella testa che deve sparare». La Sant’Onofrio degli anni ’90 era questa, quella della Strage dell’Epifania e degli agguati giornalieri. Questa fu la culla di Bonavota. Non avrebbe così lasciato che la sua famiglia fosse stata annientata nella faida. Era solo un adolescente e già un padrino. Sarebbe stato lui a stringere contatti con gli Alvaro per pianificare la latitanza dello zio Domenico Cugliari. Sarebbe stato lui il braccio destro del padre nella pianificazione di un attentato a Rosario Petrolo, poi sfumato a causa di un incidente stradale, occorso al commando di killer reclutati da Mileto. Sarebbe stato lui a prendere parte attiva a tutti i vari attentati e a tenere in mano le redini della famiglia quando il patriarca Vincenzo fu arrestato.

 

 

 

 

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