Dalla memoria di Porto Empedocle ai romanzi di Montalbano, la brillante mente siciliana ha costruito un’eredità che va oltre il successo commerciale, intrecciando storia, lingua e piccoli attimi di felicità in una narrazione capace di parlare a più generazioni
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Ci sono scrittori che sanno raccontare un’epoca, altri che sanno raccontare un luogo, altri ancora che riescono a entrare nelle pieghe della lingua per farne musica. Andrea Camilleri, nato a Porto Empedocle il 6 settembre 1925, è stato tutte queste cose insieme, e forse di più. A cento anni dalla sua nascita, ci si accorge che il suo lascito non è soltanto quello del “padre” di Montalbano, né di un autore di successo tradotto in tutto il mondo, ma di un uomo che ha inseguito, narrato e sfiorato quella che lui stesso definiva “felicità”: non una condizione stabile e rassicurante, bensì un lampo, un attimo che irrompe nella vita e si dilegua subito dopo.
La felicità come fuggevolezza
Camilleri non ha mai raccontato la felicità come uno stato durevole. Nelle sue pagine, che siano quelle dei romanzi storici, delle avventure del commissario Montalbano o dei racconti brevi, il senso di gioia appare sempre come un’epifania fragile. Montalbano, ad esempio, conosce momenti di felicità quasi clandestini: un piatto di triglie cucinate alla perfezione, il silenzio del mare di Marinella, una lettera di Livia che porta con sé la nostalgia e l’amore. Sono frammenti che non durano, che non pretendono di durare, ma che proprio per questo diventano preziosi.
Camilleri, in fondo, ha anticipato un pensiero che la filosofia e la psicologia contemporanee hanno ampiamente sviluppato: la felicità non è una meta da raggiungere, bensì una serie di attimi che vanno colti e custoditi. “Ho sfiorato la felicità” significa riconoscere che la vita non concede il possesso pieno, ma solo l’approssimazione, il passaggio veloce, la sensazione di averla quasi toccata.
Letteratura come spazio di felicità
Lo scrittore siciliano ha più volte dichiarato che la scrittura stessa era per lui una forma di felicità. Non perché fosse priva di fatica – anzi, Camilleri ricordava sempre la disciplina, le ore passate al tavolo, la lotta con la lingua –, ma perché la creazione letteraria permetteva di vivere altre vite, di restituire dignità a personaggi dimenticati dalla Storia, di ritrovare la propria memoria nei racconti della Sicilia.
Il suo amore per la parola nasceva dalla consapevolezza che la lingua è materia viva, capace di sprigionare emozioni e di creare mondi. Nei suoi romanzi, l’uso di un italiano ibridato con il dialetto non era soltanto scelta stilistica, ma anche atto di resistenza culturale: significava riaffermare che la felicità può germogliare anche in ciò che è marginale, popolare, considerato “minore”. La letteratura, per Camilleri, era uno spazio di libertà dove anche chi non ha voce può trovarne una.
La memoria come felicità
Un altro aspetto centrale della sua opera è il rapporto con la memoria. Camilleri non smette mai di tornare all’infanzia, agli odori e ai sapori di Porto Empedocle, ai racconti dei vecchi, alle piccole storie di paese. Ma non si tratta di un esercizio nostalgico. È piuttosto il riconoscere che la felicità è spesso legata al ricordo, e che soltanto nella rievocazione si può comprendere quanto sia stato felice un attimo vissuto. La memoria diventa così una forma di seconda vita, un modo per “sfiorare” nuovamente ciò che altrimenti sarebbe perduto.
Camilleri e la saggezza dell’età
Negli ultimi anni, segnati dalla cecità e dalla difficoltà fisica, Camilleri ha dimostrato una lucidità sorprendente. In interviste e incontri pubblici parlava spesso della sua condizione non come di una tragedia, ma come di un’occasione di nuova consapevolezza. La perdita della vista lo aveva portato a una visione più interiore, più meditata, della vita. Anche lì, nei momenti bui, egli riusciva a intravedere lampi di felicità: una conversazione con gli amici, il calore del pubblico che lo seguiva, l’amore di chi lo circondava.
Camilleri ci ha insegnato che la felicità non è mai totale, ma può essere riconosciuta anche nel mezzo del dolore, della malattia, della fatica. È il senso degli attimi: un pranzo semplice, una risata improvvisa, una parola detta bene.
A cento anni dalla sua nascita, Camilleri ci consegna una lezione che va oltre la letteratura. In un’epoca che ci spinge a pensare la felicità come un obiettivo da raggiungere, magari attraverso il consumo o il successo, lo scrittore siciliano ci ricorda che essa è invece un istante di grazia, spesso inatteso, che si manifesta nelle piccole cose. Non serve possederla: basta accorgersene, riconoscerla e lasciarla andare, sapendo che tornerà, in forme diverse, in altri momenti della vita.
Camilleri ha sfiorato la felicità e ci ha insegnato che il senso sta proprio nello sfiorarla. Non c’è bisogno di afferrarla per sempre: basta imparare a guardare la vita con occhi capaci di cogliere la bellezza effimera degli attimi. Forse è questo il vero segreto della sua scrittura e, insieme, della sua umanità.