Il primo romanzo del sostituto procuratore generale di Catanzaro narra la storia di una donna che ripudia la ‘ndrangheta. Molti i rimandi alla realtà criminale del Vibonese. A ispirare la figura della protagonista proprio la moglie del boss Mancuso
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Personaggi e fatti narrati sono immaginari, autentica è la realtà ambientale e sociale che li produce. La citazione tratta da Le mani sulla città, capolavoro neorealista di Francesco Rosi, che si legge nella terza pagina de “Il coraggio di rosa. Storia di una donna che ha ripudiato la ‘ndrangheta”, detta già in maniera esplicativa la traccia del primo romanzo di Marisa Manzini. Dopo i precedenti lavori dalla struttura saggistica (Fai silenzio ca parrasti assai e Donne custodi e combattenti), il magistrato piemontese si cimenta con la narrativa, in un racconto dallo spiccato taglio autobiografico, che narra vicende frutto di fantasia ma con evidentissimi rimandi alla realtà che la giudice - che ha scelto la Calabria come una missione - ha studiato e conosciuto a fondo nel corso della sua decennale attività sul campo.
Una fiction-non fiction nella quale anche la denominazione dei personaggi, le dinamiche legalitarie o criminali che essi incarnano a seconda dei casi, non fanno che rievocare, nel lettore aduso alla cronaca giudiziaria, riferimenti precisi. Dalla famiglia ‘ndranghetista Mandelli, che imperversa nel territorio vibonese, soffocandolo, a cominciare dalla piccola economia artigiana di Nicotera, alla guerra di mafia in procinto di esplodere con il gruppo rivale dei Lobbino di Vibo Valentia, con i suoi soldati basati a Piscopio che possono contare sul sostegno dei Votta di Sant’Onofrio. Dall’avvocato Carelli, compromesso fino al midollo con il clan, al maggiore dei carabinieri Serio e al commissario di Polizia Rumpini, fino alla stessa giudice Daniela Rovida, che lascia le sponde del Lago Maggiore per dedicarsi alla lotta alla mafia da sostituto procuratore generale di Catanzaro.
Nella mente del lettore si materializzano così inevitabilmente i fatti, i nomi e i volti dei protagonisti di una stagione di cronaca sulla quale i giornali locali e non solo hanno steso oceani d’inchiostro. E poi c’è lei, Rosa Bellomo, la cui figura rimanda ad una, dieci, cento donne che hanno provato, a volte riuscendoci altre – tragicamente – no, a ripudiare davvero la malapianta.
Ho avuto la fortuna di presentare il primo romanzo di Marisa Manzini al Centro polifunzionale di Briatico nell’ambito de Il maggio dei libri, su iniziativa dell’Amministrazione comunale, presente con il sindaco Lidio Vallone e il vicesindaco con delega alla Cultura Maria Teresa Centro, e con l’attenta organizzazione di Maria Teresa Marzano. In una sala non troppo affollata ma comunque nutrita (peccato per l’assenza di giovani, segnalata anche dall’ospite), hanno preso posto in prima fila anche i testimoni di giustizia Pino Grasso e Francesca Franzè, che si sono a lungo intrattenuti con il magistrato, esponendo poi anche pubblicamente le difficoltà quotidiane legate ad una scelta coraggiosa, non scontata, «ma che è comunque valsa la pena fare».
Il coraggio di Rosa è, fondamentalmente, un libro sulla speranza. Una speranza affidata alle scelte delle giovani generazioni, alla loro voglia di emancipazione e di riscatto, alla volontà di ribellarsi allo stato delle cose, al giogo imposto da una cultura impregnata di valori distorti. E quella speranza nel libro prende il nome e il coraggio, ad esempio, del sindaco-giornalista che a Nicotera sovverte i pronostici, vincendo le elezioni, e disturba gli affari dei clan che lo ripagano bruciandogli l’auto. O quello del giovane imprenditore agricolo Alessandro Basile che si mette in testa di recuperare i grani antichi senza dover pagare la tassa a chi gli offre protezione a suon di intimidazioni. O, ancora, quello di Angela Cosentino che convince il padre artigiano a denunciare i suoi taglieggiatori.
E poi la speranza ha gli occhi di Rosa e del suo bambino. Lei che proviene da un’umile famiglia di pescatori, che si innamora del figlio del boss e che, stordita dal sentimento, ignora le preoccupazioni del padre e si lascia lentamente imprigionare in una gabbia dorata. Fatta di lusso sì, ma anche di menzogne, divieti, sottomissione. Sarà decisivo l’incontro con la giudice venuta dal Piemonte per aprirle definitivamente gli occhi e spalancarle un cuore già tormentato. Rosa troverà la determinazione, il coraggio, per fa sì che il proprio figlio non subisca un destino già segnato.
Quello della visione patriarcale e maschilista della ‘ndrangheta diviene così il tema centrale del libro di Marisa Manzini. Tema assai caro alla giudice, evidenziato anche dal grande clamore della sua forte denuncia di fronte alle minacce ricevute dal boss Pantaleone “Scarpuni” Mancuso che, nel corso di un’udienza, collegato in videoconferenza con il Tribunale di Vibo Valentia, le intimò di stare zitta che “aveva già parlato assai”. Come a voler sminuire il suo ruolo di pubblico ufficiale in quanto… donna.
E la chiave di lettura si ritrova proprio nella capacità delle donne di ‘ndrangheta di rompere quel vincolo familiare che le vede sottomesse e subalterne, ma al tempo stesso responsabili del perpetrarsi delle logiche mafiose quando gli uomini non possono più esercitarle perché detenuti o morti ammazzati. E soprattutto nell’educazione dei figli maschi, dei rampolli che dovranno raccogliere il testimone della casata, sia sul piano simbolico che materiale. Spezzare quella catena, ha spiegato la dottoressa Manzini, ribadendo il concetto impresso nel libro, può rappresentare, un passo alla volta, la fine della ‘ndrangheta. E ha ricordato anche l’efficacia di strumenti come il progetto Liberi di scegliere per togliere le giovani generazioni dai contesti familiari segnati da malaffare e violenza.
Ma di chi, Rosa, è l’alter ego nella realtà romanzata? Chiedo. A chi pensava quando ha tratteggiato il profilo del suo personaggio? «Sono tante le storie di donne che ho conosciuto nel corso della mia attività - la risposta -. Alcune di queste storie hanno avuto un lieto fine. Altre, purtroppo, un esito drammatico. Giuseppina Pesce, ad esempio, ha avviato un percorso di collaborazione che le ha consentito di divincolarsi dalla famiglia d’origine e di riprendere in mano la sua vita in una località protetta. Ma c’è stata una donna in particolare che ha avviato con me la sua collaborazione e che però non ha avuto altrettanta fortuna».
Gli occhi della giudice, ricordando e raccontando, diventano lucidi e la voce tradisce un’emozione trattenuta a stento. Anche l’uditorio resta come sospeso, concentrato a percepire ogni sfumatura del suo racconto. «Quella donna - spiega - era Tita Buccafusca, che proprio a me aveva confessato di voler abbandonare quella vita e di volerlo fare soprattutto per suo figlio, per strapparlo ad un destino già scritto. Ma, al tempo stesso, Tita si era messa in testa di convincere anche il marito (proprio quel Luni Mancuso che poi minaccerà pubblicamente la giudice, ndr) a pentirsi e a scegliere a sua volta la giustizia. Quella scelta le è costata cara. Tita muore dopo aver ingerito una bottiglia intera di acido muriatico. Un suicidio, ufficialmente, ma con molti lati oscuri che lasciano propendere per altre ipotesi. La sua morte - afferma Marisa Manzini ormai con un filo di voce - mi ha segnato profondamente. Scrivere questo libro è stato anche un modo per elaborare il senso di colpa per non essere riuscita a salvarla».