Oscar Farinetti, giunto in Calabria, ci ha spiegato che disponiamo di tanti prodotti eccellenti, ma che non li sappiamo raccontare. Ha ragione, ma… Forme di provincialismo “made in Calabria”, accanto ad altri fenomeni di colore grigiastro, hanno fatto prevalere troppo spesso un atteggiamento di sudditanza psicologica e culturale dei calabresi nei confronti delle proposte del settentrione, o di quanti giungono dal Nord Italia o addirittura dall’estero per indicarci la retta via. Non voglio ignorare l’appello dell’imprenditore piemontese, pur ricordandogli che esperienze come Fico, a Bologna, sebbene guardate con molta attenzione anche da Sud, non hanno riscosso il successo immaginato. E spiego anche perché. I prodotti d’eccellenza, e soprattutto quelli di nicchia che contraddistinguono la Calabria o altre regioni meridionali, non devono solo essere raccontati, esposti, presentati, ma per essi occorre costruire dei sistemi specifici, di arte sartoriale, e cioè cuciti su misura.

La visibilità mediatica di Farinetti va colta nella sua accezione positiva e ci consente di aprire un ragionamento proprio sull’argomento che egli solleva. Più volte ho espresso riserve anche su diverse attività di promozione della Regione Calabria o di altre istituzioni pubbliche, a partire dall’ingente e costosa partecipazione a fiere ed esposizioni di ogni tipo. Mi sono sempre chiesto, ad esempio, perché la Calabria e il Sud non siano mai riusciti a proporsi essi stessi come polo d’attrazione dell’agroalimentare nazionale e internazionale piuttosto che inseguire i progetti di altri, intersecando queste attività con la valorizzazione dei luoghi, con l’attrattività turistica, con l’indispensabile collegamento agli stili di vita e alla Dieta Mediterranea.

Non si possono separare i cibi di vera eccellenza e di filiera corta dai contesti in cui nascono! Sulle ragioni che hanno suggerito altri percorsi mi sono dato anche delle risposte, ma mi fermo qui. Né, a parte alcuni segnali positivi pur emersi e che con correttezza sono stati messi in luce, mi pare molto interessante e fruttuosa la logica di farsi colonizzare da modelli che non sono nati, né sono stati pensati, per un Mezzogiorno e una Calabria che hanno radici storiche, culturali e identitarie solidissime, peculiari, uniche e distintive. Ne parlammo l’estate scorsa nel corso del Vinitaly Sibari e in un apposito convegno organizzato nella kermesse veronese edizione 2024, quando finalmente la Regione, presenti il presidente Occhiuto e l’assessore Gallo, dimostrò di voler metabolizzare l’idea di far partire il racconto del vino dagli Enotri, e non dalla sola Magna Grecia, e di tentare una stretta connessione con il patrimonio storico-archeologico.

C’è da capire però se queste strade avviate diventeranno strutturali, sapendo valorizzare al massimo anche le energie locali, oppure se si fermeranno all’enunciazione facendo pendere poi la bilancia su fenomeni di colonizzazione culturale che spengono le luci sulla Calabria invece che accenderle. Né si può omettere di aprire un ragionamento sul rapporto tra costi e benefici e sulle dinamiche relative alle ricadute locali degli investimenti.

Grand Terroir è nato, nell’ambito del network LaC, proprio per spiegare che il semplice, e spesso convulso, disordinato e affannoso racconto delle produzioni tipiche, non è sufficiente se non si lavora per costruire reti e sistemi efficaci, e se la comunicazione integrata non diventa un fatto strutturale e interconnesso con tutti gli attori in campo. La comunicazione integrata (fiere comprese) è utile se non è concepita come un “business” in se stesso, nel senso che addirittura fagocita la ragione primaria del proprio agire, ma soltanto se riesce a generare sviluppo sostenibile misurabile. Alcuni dati sull’export agroalimentare calabrese sono per un verso positivi, ma meritano analisi dettagliate e comparazioni adeguate.

I numeri devono sempre essere letti e studiati. La sollecitazione di Oscar Farinetti è un contributo per riaprire una discussione su temi dirimenti. Certo è che la Calabria non potrà mai crescere in una dimensione di colonia acritica, ma solo se saprà costruire dinamiche e percorsi economico-sociali “autoctoni”, capaci di imporre le proprie esigenze che nascono da profondissime radici storiche, culturali e identitarie.