Si torna a parlare di autonomia differenziata e dopo anni di stop ripartono le preintese tra Governo e Regioni. A prendere l’iniziativa è stato il ministro per gli Affari Regionali, Roberto Calderoli, con una decisione che ha scatenato dure polemiche politiche a pochi giorni dal voto in Veneto. L'autonomia differenziata è prevista dall'articolo 116, terzo comma, della Costituzione e la legge 86 del 26 giugno 2024 ne definisce i principi generali di attuazione.

La legge consente alle Regioni di legiferare e di occuparsi in via esclusiva di materie come la tutela della salute, l’istruzione, i trasporti, l’energia, la previdenza complementare ed integrativa, la protezione civile e persino la ricerca scientifica e tecnologica ed il commercio con l’estero. L’articolo 6 della legge 86 prevede che ciò avvenga a costo zero. La Corte costituzionale, intervenuta lo scorso anno dopo i ricorsi presentati da 7 Regioni, ha dichiarato illegittime ampie e significative parti della riforma.

Nel mirino dei giudici sono finiti i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) ed i relativi costi: impossibile, dicono i magistrati, assicurare i servizi senza maggiori spese a carico del bilancio dello Stato come invece previsto dalla legge. Due passaggi fondamentali della norma vanno di fatto in contrasto. A fronte di maggiori spese la legge prevede il «trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie volte ad assicurare» i Lep.

Manca un quadro economico di riferimento. Di qui lo stop della Corte costituzionale che ha considerato l’opzione avanzata dal Governo non in linea con gli obiettivi di programmazione economica e finanziaria, I magistrati hanno definito «improcrastinabile l’attuazione del fondo perequativo». Non avendo un preciso quadro di spesa non si riuscirebbe ad assicurare la copertura ordinaria dei servizi e a garantirne l’omogeneità su tutto il territorio nazionale: lo Stato dovrebbe correre in soccorso delle Regioni in difficoltà sostenendo la spesa locale. Quindi non a costo zero. A pagare il prezzo più alto saranno le aree del Paese in cui i servizi e la qualità offerta non sono in linea con gli standard nazionali. L’Italia, è noto, viaggia ormai a diverse velocità: intese bilaterali tra Stato e Regioni non faranno che accentuare le distanze tra Nord e Sud del Paese. Pensiamo alla sanità, all’istruzione e al trasporto locale. La riforma sarà difficilmente attuabile.  

L’analisi della Banca d’Italia

Le intese bilaterali non hanno copertura finanziaria e non possono essere attuate mancando un quadro economico di riferimento. Non si può varare una riforma di questa portata senza avere un quadro della spesa. Secondo la nostra banca centrale «un assetto istituzionale estremamente differenziato potrebbe risultare poco trasparente per i cittadini, accrescendo i costi di coordinamento e indebolendo l’accountability dei diversi livelli di governo». Lo stacco tra aree del Paese sarebbe tale da rendere complicati rapporti di cooperazione, ad esempio in materia sanitaria, di trasporto o di energia, tra regioni vicine o confinanti, con effetti negativi anche su imprese e lavoratori. Le materie che potrebbero passare alle Regioni sono 23, cioè tutte quelle indicate come «materie di legislazione concorrente» dalla Costituzione. Su alcune di queste materie la Banca d’Italia evidenzia che «è richiesta una capacità di azione tempestiva e di coordinamento, a livello nazionale e spesso sovranazionale».

L’esistenza di diversi modelli regionali e la confusione normativa a cui si andrebbe incontro penalizzerebbe tutti. Lo Stato perderebbe il controllo di una parte rilevante della spesa, e questo potrebbe intaccare la sua capacità di fare programmazione in maniera virtuosa, cioè di prendere decisioni che favoriscano la crescita e contrastino gli effetti nefasti di una crisi o di un periodo di rallentamento dell’economia globale. Inoltre, le Regioni hanno al momento minori strumenti e anche minori obblighi di rispettare i vincoli di bilancio previsti dalla Costituzione e dai trattati europei, e in caso di gestione non positiva delle risorse lo Stato potrebbe dover intervenire per sistemare le cose.

Per questo, secondo la Banca d’Italia «il rischio che da tale processo possano derivare maggiori oneri per il bilancio pubblico […] non può essere trascurato», dato che «la spesa complessiva potrebbe risentire della frammentazione nell’erogazione dei servizi pubblici, oltre che di maggiori costi dovuti a diseconomie di scala».