L’apparente miglioramento dei dati è in larga parte la conseguenza di un calo della forza lavoro, non di un effettivo aumento delle persone che hanno trovato un’attività. I numeri dicono che più di un terzo di coloro che erano in cerca di impiego si è scoraggiato o è emigrato. Cosa fare per invertire la tendenza
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Continua il nostro viaggio nelle emergenze della Calabria affidato ai contributi del professore Domenico Marino. Dopo l’analisi sulla sanità (potete leggerla qui) e le politiche dell’innovazione (clicca qui), focus sul mercato del lavoro.
La fotografia che emerge dall’analisi del mercato del lavoro in Calabria negli anni 2019–2024 è quella di un mercato del lavoro calabrese in apparente miglioramento “statistico” ma ancora fragile nella sostanza. Il tasso di disoccupazione scende, ma il cuore del problema resta invariato: la partecipazione al lavoro è bassa e la forza lavoro si restringe. È questo deficit strutturale di offerta, prima ancora di un problema congiunturale di domanda, a spiegare perché la regione fatichi a trasformare la riduzione dei disoccupati in un vero salto di quantità e qualità dell’occupazione. I numeri lo mostrano con chiarezza: tra il 2019 e il 2024 gli occupati in Calabria restano sostanzialmente stabili, mentre diminuisce la forza lavoro. In altre parole, la discesa del tasso di disoccupazione non è trainata da un boom di posti, ma da una platea attiva più piccola, tipico segnale di scoraggiamento, demografia sfavorevole e migrazioni verso altre aree.

La tabella 1 racconta in maniera chiara perché, in termini sostanziali, “non è cambiato molto”: in cinque anni gli occupati sono aumentati di circa tremila unità su una base di oltre seicentomila persone in forza lavoro; un incremento troppo piccolo per parlare di svolta. L’apparente successo sulla disoccupazione è in larga parte la conseguenza di un calo della forza lavoro, non di un’accelerazione dell’occupazione. È esattamente il marchio della debolezza strutturale calabrese: tassi di attività bassi, che comprimono l’offerta di lavoro e limitano la capacità del sistema di trasformare la ripresa in occupazione aggiuntiva stabile.
Il percorso del tasso di disoccupazione (tab. 2) va analizzato attentamente. Dopo il picco pre-pandemico, l’indicatore migliora nel triennio successivo, risale leggermente nel 2023 e torna a scendere nel 2024. Ma la traiettoria, letta da sola, inganna: senza una crescita della partecipazione, la riduzione della disoccupazione non garantisce più benessere diffuso, né maggiore resilienza economica.

Il numero dei disoccupati, preso isolatamente, non deve essere frainteso come “prova” di un salto in avanti. Il calo è reale, ma non è accompagnato da un’espansione proporzionale degli occupati; di nuovo, il collo di bottiglia è l’attività. La dinamica 2019-2024, in particolare, combina una riduzione dei disoccupati con una forza lavoro più corta: un equilibrio che migliora l’indicatore percentuale, ma lascia quasi immutata la dimensione dell’occupazione.
Spesso, negli ultimi periodi, dei commentatori e politici, digiuni di economia hanno provato ad enfatizzare questo calo della disoccupazione, portandolo ad esempio di politiche virtuose. Nulla di più sbagliato e fallace! Verrebbe da dire che è l’ignoranza che fa straparlare chi si improvvisa o si crede economista senza averne le competenze. In realtà la diminuzione della disoccupazione è dovuta al transito dei disoccupati nelle non forze lavoro. Infatti, dal 2019 al 2024 le forze lavoro diminuiscono di 57 mila unità e i disoccupati diminuiscono di 60 mila unità (Tab. 1). Ciò significa che non è diminuito il numero di coloro che non hanno lavoro, ma che più banalmente più di un terzo di coloro che erano in cerca di lavoro ha smesso di cercarlo, non perché occupato, ma semplicemente perché scoraggiato o emigrato a cercate lavoro in altre regioni. Cosa che più che un successo, certifica il fallimento totale delle politiche del lavoro!

A completare il quadro, c’è un canale di “assorbimento invisibile” che aiuta a spiegare dove finisce una parte di chi esce dalla forza lavoro: il sommerso. In Calabria l’economia non osservata ha un peso eccezionalmente alto e questo rende plausibile che una quota non trascurabile di persone scivoli dall’inattività statistica al lavoro irregolare, sfuggendo ai radar. Nel 2022, secondo i Conti territoriali Istat, l’economia non osservata vale il 19,1% del valore aggiunto regionale, contro l’11,2% della media italiana; dentro questo aggregato, la componente dovuta all’impiego di lavoro irregolare incide per il 7,9% del valore aggiunto calabrese, a fronte del 3,9% in Italia. Sono differenziali enormi, che segnalano una struttura produttiva in cui l’irregolarità non è marginale ma sistemica, con effetti a catena su produttività, sicurezza sul lavoro, retribuzioni, gettito fiscale e contributi previdenziali.

La conseguenza pratica è che la riduzione “statistica” della disoccupazione coesiste con una stagnazione dell’occupazione “buona” e un arretramento della platea attiva, mentre una parte della domanda di lavoro continua a essere soddisfatta fuori dalle regole. In questo contesto alla sfida di creare nuovi posti di lavoro, si deve aggiungere quella di portarli alla luce e di fare emergere lavoro e valore aggiunto.
Nel confronto implicito con le grandi aree del Paese, la Calabria continua a distanziarsi soprattutto sui tassi di attività: il Centro-Nord mantiene livelli più elevati di partecipazione e un’occupazione relativa più ampia. È qui che si gioca la partita della convergenza: se la platea attiva non cresce, ogni miglioramento meramente statistico della disoccupazione rischia di restare effimero. Servono politiche che allarghino la base, non solo che spostino persone da “disoccupati” a “inattivi”: più servizi per l’infanzia e la conciliazione, formazione mirata ai fabbisogni delle imprese, attrazione e rientro dei giovani qualificati, mobilità interna che non sia sinonimo di fuga. Senza un deciso recupero del tasso di attività che passa anche attraverso una lotta efficace al sommerso, la riduzione della disoccupazione resterà una falsa buona notizia di facciata, buona solo per qualche comunicato stampa di qualche politico digiuno di economia, ma incapace di tradursi in crescita economica duratura e inclusiva.