Ellen e Alice sono morte insieme, per scelta, a 89 anni. Una vita inseparabile, un’uscita di scena identica: come promesso. Le icone della tv europea hanno lasciato tutto in eredità ad associazioni umanitarie. Due vite gemelle che hanno attraversato miseria, palcoscenici globali, rivoluzioni di costume e un’Italia che scoprì la modernità guardando le loro gambe
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Le gemelle Kessler
Sono morte come avevano vissuto: insieme, lo stesso giorno, la stessa ora, lo stesso respiro. Ellen e Alice Kessler, 89 anni, le gemelle più celebri d’Europa, hanno scelto il suicidio assistito a Grünwald, vicino a Monaco, dove vivevano da tempo in una quiete elegante e appartata. La notizia, anticipata da Bild e Dpa, è stata confermata dalla polizia bavarese, che ha attestato l’assenza di interventi esterni. Una decisione che le due leggendarie “gambe della nazione” avevano meditato da anni, indicando anche la volontà di essere cremate insieme, nella stessa urna che custodisce le ceneri della madre Elsa e del cane Yello. Ultimo atto di un legame che non era solo biologico, ma psicologico, esistenziale, quasi sacro.
Non è una sorpresa, a ben guardare. In un’intervista del 2011, Ellen lo aveva detto con chiarezza disarmante: «Non credo di poter sopravvivere senza di lei». Era una promessa, un giuramento di sorellanza assoluta. Negli ultimi anni incontravano poche persone, si muovevano tra il ristorante cinese del quartiere, qualche serata a teatro, il golf. Ma dell’epoca in cui scuotevano platee e sabato sera televisivi non avevano nostalgia nostalgica, solo un ricordo sorridente. Erano state due delle artiste più popolari del Novecento europeo, ma avevano deciso da tempo che la loro uscita di scena sarebbe stata sobria, controllata e profondamente privata.
Per capire la forza di questa coppia indissolubile bisogna tornare all’inizio, molto prima delle luci del Lido e di Studio Uno. Le Kessler erano nate nel 1936 a Nerchau, in Sassonia, in una Germania ancora ferita dalla guerra e poi spezzata dalla Storia. La famiglia fuggì a Ovest prima che il Muro chiudesse ogni possibilità. Ma l’infanzia fu durissima. I due fratelli maggiori morirono di tifo e itterizia, il padre — alcolizzato, violento — le picchiava. Anni dopo raccontarono alla Zeit: «La paura della sua rabbia cieca e la sensazione di non avere nessun altro ci ha cementate per sempre». Era un legame che non nasceva solo dall’essere gemelle, ma dall’essere sopravvissute insieme.
Da quel passato derivava anche il loro rifiuto del matrimonio. Non fu mai un capriccio. «La violenza domestica era un fatto quotidiano. Ci giurammo che non ci sarebbe successo mai», confessò Alice nel 2024 alla Bunte. Col tempo ne diedero anche una versione ironica, teneramente tagliente: «Non vogliamo uomini per casa: già solo l’idea di condividere il bagno è insopportabile». Scelsero l’indipendenza, la libertà sentimentale, la vita da artiste cittadine del mondo.
La loro ascesa rimane uno dei capitoli più luminosi dello spettacolo europeo. A sei anni cominciarono gli studi di danza; a diciotto erano già sul palco del Palladium di Düsseldorf. Poi la chiamata del Lido di Parigi, che fece definitivamente esplodere il mito: alte, bionde, affusolate, sincronizzate nei movimenti e nell’ironia. A ventiquattro anni partirono per un tour internazionale che le trasformò in un marchio riconoscibile ovunque. Negli Stati Uniti si esibirono con Sinatra e Fred Astaire. Rifiutarono Elvis Presley per “Viva Las Vegas”, con una nonchalance che diventerà celebre: «Non ci squagliammo al suo cospetto. Eravamo cool, e lui non lo resse». Erano professionali, determinate, imperscrutabili: un mix che Hollywood non era abituata a gestire.
Ma fu in Italia che divennero mito popolare. Per generazioni intere, il Paese scoprì attraverso di loro una modernità che non aveva ancora parole per definirsi. Le loro gambe — quelle gambe che arrivavano a un metro e settantotto in un’Italia in cui l’uomo medio sfiorava il metro e sessantotto — non erano solo un elemento estetico: erano uno shock culturale. Il boom economico stava cambiando tutto, le spiagge si popolavano di jukebox, le città scoprivano i consumi, ma la televisione era ancora un monolite morale. Quando le Kessler arrivarono nel 1961 a Giardino d’inverno e poi a Studio Uno, la Rai era l’unico canale. Andare in onda significava entrare nelle case di un intero popolo. E loro ci entrarono come due epifanie nordiche che sembravano anticipare un mondo non ancora nato.
Il contesto era quello di un’Italia in cui divorzio e aborto erano ancora tabù, l’adulterio era un reato, il delitto d’onore un’attenuante. La minigonna di Mary Quant era una provocazione raccontata dai giornali con toni scandalizzati. Le Kessler mostrarono gambe non proibite, ma “concesse” perché artistiche, televisive, incastonate nella cornice rassicurante del sabato sera. Quel poco bastò per rovesciare un immaginario: la loro presenza era la promessa di un’Italia più libera, più spigliata, meno prigioniera del moralismo.
La discografia aggiunse un altro tassello al mito. Brani come “Zwei blonde Senoritas”, “Montecarlo Cha-cha” e soprattutto “Da-da-umpa” entrarono nella memoria sonora collettiva. Il tormentone divenne colonna sonora di un Paese che cominciava a sentirsi giovane. Per gli adolescenti degli anni Settanta, le Kessler erano ormai un ricordo della tv in bianco e nero; per gli adulti di oggi, restano un simbolo di un’Italia che cambiava a ritmi vertiginosi e in cui il sabato sera davanti al televisore era un rito comunitario.
Il loro ultimo gesto — morire insieme, in modo consapevole e scelto — è coerente con tutto ciò che sono state. Nessun figlio, nessun matrimonio, nessun legame che non fosse quello gemellare. Nessuna retorica, nessuna spettacolarizzazione. Solo una decisione lucida, condivisa, definitiva. Hanno lasciato tutto a Medici Senza Frontiere e ad altre organizzazioni umanitarie, come se l’ultimo passo dovesse restituire qualcosa al mondo.
La loro vita è stata una parabola perfetta: dalla miseria alla ribalta, dal dolore infantile alla celebrità globale, dalla rivoluzione di costume alla scelta finale del silenzio. Se ne sono andate così, come avevano annunciato: senza clamori, senza separarsi, senza contraddire il patto che le aveva tenute unite per quasi novant’anni. Una vita a due voci, un ultimo atto a due mani. Per davvero, per sempre.



