Tra i grandi nomi coinvolti figurano anche Dolce&Gabbana, Missoni, Ferragamo, Adidas e tanti altri. L’obiettivo è chiarire eventuali episodi di sfruttamento legati alla manodopera cinese
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Sfilata moda, immagine di repertorio
Il mondo della moda ama raccontarsi come una costellazione di eccellenze: atelier luminosi, mani esperte, filiere controllate e committenze impeccabili. Poi però arriva la Procura di Milano e il racconto perde un po’ di brillantezza. Il pm Paolo Storari, già impegnato nell’indagine sul caporalato nella moda, ha deciso di allargare il perimetro e di bussare alla porta di altri tredici marchi di rilievo. Non boutique di nicchia, non marchi di passaggio, ma colonne portanti del settore che ogni stagione fanno sfilare sulle passerelle la loro idea di lusso. A loro viene chiesto di consegnare tutta la documentazione relativa ai sistemi di controllo sulla filiera di appalti e subappalti. Una richiesta formale, ma che suona come una domanda diretta: cosa succede davvero nei laboratori dove vengono realizzati i prodotti che poi finiscono nelle vetrine più prestigiose?
Nel mirino non ci sono solo i casi già noti, tra cui quello di Tod’s che ha inaugurato il nuovo filone mediatico e giudiziario. Questa volta le richieste coinvolgono Dolce&Gabbana, Versace, Prada, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia e Off-White Operating. Marchi che valgono miliardi, presidiano mercati globali e fanno dell’immagine impeccabile un asset strategico. Eppure, la Procura chiede di vedere carte, protocolli, sistemi di verifica, audit interni. Perché, come si legge negli atti, dai procedimenti già aperti sono emersi episodi di utilizzo di manodopera cinese sfruttata in laboratori o opifici-dormitorio. Luoghi dove si lavora e si dorme nello stesso spazio, dove i ritmi sono serrati e i compensi ridotti al minimo. Luoghi dove sono stati trovati anche prodotti destinati ai marchi oggi coinvolti nelle richieste di chiarimento.
Il punto non è accusare in anticipo, ma capire se la filiera sia davvero sotto controllo. È qui che il glamour si scontra con la realtà. La narrazione dei marchi racconta di controlli rigorosi, protocolli di sostenibilità, verifiche continue sui fornitori. La magistratura, dal canto suo, ha trovato in altri casi una serie di subappalti che scendono a cascata fino a laboratori opachi dove la manodopera vive in condizioni inaccettabili. Il problema è strutturale: la distanza tra il brand che vende il prodotto e il laboratorio che lo produce spesso supera i confini della trasparenza, e lungo quella distanza si inseriscono figure intermedie che sfuggono ai controlli. La Procura vuole vedere se i marchi hanno davvero gli strumenti per impedire che ciò accada. Perché se la filiera non è controllata, allora il rischio di sfruttamento esiste a prescindere da buone intenzioni e slogan aziendali.
Le notizie riportate dal Corriere della Sera e dal Sole 24 Ore confermano il quadro. Gli atti mostrano che nei procedimenti già in corso sono stati sequestrati prodotti riconducibili ai marchi ora coinvolti. Non in atelier ufficiali, ma in laboratori-dormitorio gestiti da manodopera cinese e organizzati secondo logiche che con l’eccellenza artigianale non hanno alcun legame. Turni estenuanti, brande accanto ai macchinari, spazi angusti che funzionano contemporaneamente da fabbrica e alloggio. Una realtà che coesiste con quella patinata delle sfilate, ma che raramente appare nelle campagne istituzionali. Il pm Storari, nelle sue richieste di documentazione, non si limita a segnalare le anomalie: chiede di capire quanto i marchi abbiano vigilato sui soggetti a cui delegano fasi cruciali della produzione.
La questione fa emergere una contraddizione evidente. Il lusso vende soprattutto immagine, ma produce soprattutto tramite catene che l’immagine non la reggono. L’idea che un prodotto da migliaia di euro possa passare per un laboratorio improvvisato e popolato da lavoratori sfruttati è un cortocircuito che il settore non può più ignorare. Non è un caso che la Procura voglia conoscere non solo la documentazione formale, ma anche i sistemi di controllo effettivamente applicati. Perché un protocollo sulla carta non basta se poi il prodotto passa per mani invisibili che nessuno controlla davvero.
Il pm Storari descrive con precisione il quadro che ha motivato la nuova richiesta di documenti. Dai filoni d’indagine già avviati sono emersi «episodi di utilizzo» di lavoratori cinesi sfruttati, spesso impiegati in laboratori dove venivano trovati semilavorati o prodotti completi destinati ai marchi investigati. È un modo per segnalare che il problema non riguarda un singolo marchio o un singolo laboratorio, ma un modello produttivo che, se non adeguatamente monitorato, tende a replicarsi. Non si parla di responsabilità penali già accertate, ma di possibili casi di caporalato che meritano approfondimento. E per approfondire servono documenti, tracciabilità, controlli verificabili.
La sensazione è che il settore dovrà abituarsi a un nuovo livello di trasparenza. I marchi chiamati in causa dovranno dimostrare che i loro controlli non sono solo dichiarati, ma reali e applicati fino all’ultimo subappalto. Non sarà semplice, perché la filiera della moda è ampia, articolata e spesso frammentata. Ma è un passaggio necessario, soprattutto dopo che l’indagine milanese ha mostrato quanto possano essere profonde le zone d’ombra. Le passerelle continueranno a brillare, ma nel frattempo la Procura sta guardando dietro le quinte, dove gli abiti vengono cuciti lontano dai riflettori. Ed è lì, molto più che in prima fila, che si capisce se il racconto del lusso poggia davvero sul lavoro rispettato o se, a volte, cammina troppo vicino al confine dello sfruttamento.

