Nel Tribunale di Pavia l’udienza decisiva. L’aula è blindata e “assediata” da telecamere e cronisti, ma il vero campo di battaglia è quello scientifico: la traccia genetica rilevata sotto le unghie di Chiara Poggi
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Andrea Sempio
Ultimo atto, questa mattina, nel tribunale di Pavia per l’incidente probatorio sul delitto di Garlasco. Un passaggio tecnico, ma dal peso enorme, che riporta sotto i riflettori una delle vicende giudiziarie più discusse degli ultimi decenni: l’omicidio di Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto 2007. Fuori dall’aula, il solito copione delle giornate “chiave”: corridoi pieni, telecamere puntate, cronisti appostati. Dentro, invece, l’atmosfera è quella di uno scontro tra linguaggi inconciliabili: la prudenza della scienza, le letture contrapposte delle difese, la pressione di un caso che non smette di dividere.
A sorprendere tutti è anche una presenza inattesa: Alberto Stasi. Il 42enne, condannato in via definitiva per l’omicidio dell’ex fidanzata, si presenta in aula accompagnato dai suoi avvocati. La difesa spiega che la scelta è legata alla volontà di seguire direttamente l’udienza conclusiva e di «manifestare rispetto per l’autorità giudiziaria», senza trasformare la comparsa in un momento mediatico. Nessuna dichiarazione, né all’ingresso né all’uscita: «Non parlerà, ci teneva a esserci», è la linea ribadita dai legali.
Il cuore dell’udienza, però, non è la presenza di Stasi. È il confronto tecnico sul Dna maschile individuato sotto le unghie di Chiara Poggi, la traccia che negli ultimi mesi ha riaperto fratture e riacceso divergenze tra Procura, difese e consulenti. Gli esperti si concentrano in particolare sulle tracce estrapolate dalle unghie di due dita di una mano della vittima. Secondo la consulenza disposta dalla Procura di Pavia e dal gip Denise Albani, quel profilo genetico risulterebbe compatibile con quello di Andrea Sempio – amico del fratello di Chiara – o con componenti della sua linea paterna.
Il lessico della perizia resta volutamente misurato. Si parla di compatibilità “moderatamente forte” in un caso e “moderata” nell’altro: formule che, tradotte, significano che non ci si muove sul terreno delle certezze granitiche, ma su quello dei gradi di probabilità e dei limiti del materiale disponibile. La stessa perizia, nel suo linguaggio asettico, mette paletti netti: non è possibile stabilire con rigore scientifico se Chiara Poggi si sia difesa, né chiarire se quelle tracce fossero “sotto” o “sopra” le unghie, né stabilire se si tratti di Dna depositato con un contatto diretto o arrivato in modo mediato, magari attraverso un oggetto.
Ed è proprio qui che le parti si dividono, perché quel “non si può dire” scientifico diventa benzina per interpretazioni opposte. I difensori di Andrea Sempio, Angela Taccia e Liborio Calatiotti, contestano l’affidabilità dell’analisi, sottolineando che la perizia si fonderebbe su dati documentali del 2014 che la stessa Albani considera «non consolidati». Secondo questa impostazione, il materiale genetico non consentirebbe conclusioni robuste né sull’origine della traccia né sulle modalità con cui sarebbe finita sulle unghie della vittima.
Di lettura opposta la posizione della difesa di Stasi, con Giada Boccellari e Antonio De Rensis: per loro la perizia confermerebbe, almeno sul piano della compatibilità, le analisi dei consulenti che hanno portato alla riapertura dell’inchiesta su Sempio. Un punto che, nella loro ricostruzione, rafforzerebbe la necessità di rimettere a fuoco il quadro complessivo, proprio partendo da ciò che emerge dagli accertamenti più recenti.
In mezzo c’è la posizione dei consulenti della famiglia Poggi, che ridimensionano il significato dell’elaborato: una perizia basata su dati giudicati “non consolidati”, sostengono, non avrebbe valore scientifico tale da aggiungere davvero elementi nuovi a una vicenda già passata al setaccio per anni. Tre letture diverse, tutte appoggiate a una stessa materia prima: una traccia genetica che, per definizione, richiede rigore e prudenza, ma che in un caso di questa risonanza inevitabilmente diventa terreno di scontro.
Non è escluso, inoltre, che in aula emergano temi capaci di “movimentare” il confronto. Tra le questioni tornate a galla c’è la richiesta di far entrare nell’incidente probatorio la cosiddetta “traccia 33”, individuata su un muro e contenente residui biologici: un elemento su cui si è già discusso, e che sarebbe stato respinto due volte dalla Procura anche perché il frammento di intonaco grattato nel 2017 risulta mancante. Un dettaglio che, da solo, racconta quanto il tempo sia un nemico reale, soprattutto quando si parla di reperti e catene di conservazione.
Sul tavolo restano poi altri nodi destinati a tornare, in caso di richiesta di rinvio a giudizio: le telefonate a vuoto attribuite a Sempio verso Marco Poggi pur sapendolo assente, e lo scontrino del parcheggio che per l’accusa non sarebbe suo, mentre lui ha sempre sostenuto di trovarsi a Vigevano nel momento dell’omicidio. Sono elementi già noti e discussi, ma che in un eventuale scenario processuale potrebbero essere riletti alla luce delle conclusioni tecniche.
Con la chiusura dell’incidente probatorio si conclude una fase cruciale, perché ciò che viene fissato oggi non resta confinato al dibattito tra periti: entra nel fascicolo e potrà essere utilizzato come prova in un eventuale nuovo processo. Il caso Garlasco, ancora una volta, non si chiude. Si sposta. E aggiunge un altro capitolo a una storia che continua a generare, anche a distanza di anni, più domande che consenso su una sola lettura.

