La prima e la terza manifattura diventano zavorre per l’intero continente. Berlino soffoca sotto la crisi dell’export, Roma segue a ruota. La Bce fotografa un intero modello sotto stress
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Da locomotive d’Europa a pesi che rallentano la corsa del convoglio. L’immagine è brutale, ma rende bene l’idea di quanto sia cambiato il baricentro economico del continente: Germania e Italia, per decenni le due potenze manifatturiere che tenevano in equilibrio l’intera architettura europea, oggi arrancano mentre altri Stati accelerano. Nelle stime della Banca centrale europea, i numeri del Pil hanno disegnato una forbice impressionante: Spagna +0,6%, Paesi Bassi +0,4%, Italia e Germania inchiodate allo 0%. Un’Europa a due velocità che rischia di trasformarsi in una costante.
È la Bce, nel suo ultimo bollettino, a parlare apertamente di «notevoli differenze» tra le maggiori economie dell’Eurozona. Una formula diplomatica per dire che i due giganti continentali si sono arenati. Il problema, però, non riguarda soltanto le loro performance locali: si tratta di economie intrecciate, dipendenti l’una dall’altra, con catene del valore che si estendono da Stoccarda a Torino, da Wolfsburg a Brescia. Se Berlino si ammala, Roma ne paga immediatamente le conseguenze. E, negli ultimi anni, la Germania ha accumulato una serie di sintomi che hanno finito per contagiare anche il nostro sistema produttivo.
L’interscambio commerciale ha continuato a viaggiare su cifre altissime, superando di nuovo quota 150 miliardi. Ma dietro al volume c’è un dato che preoccupa: settori chiave dell’industria tedesca, quelli che più influenzano l’economia italiana, stanno perdendo terreno. L’automotive, per decenni simbolo della precisione tedesca, è entrato in una crisi strutturale. I bilanci degli ultimi mesi raccontano un vero e proprio scossone: dazi imposti dall’amministrazione Trump, un mercato cinese ormai quasi impenetrabile per marchi storici come Volkswagen, Bmw o fornitori come Bosch, una concorrenza interna alla Cina capace di produrre auto elettriche a costi irraggiungibili.
Pechino, nel frattempo, si è trasformata in un gigante industriale che non solo domina il mercato delle auto elettriche, ma sta espellendo progressivamente tutti i concorrenti occidentali dai segmenti chiave. Una situazione aggravata dal fatto che la Germania, nonostante anni di allarmi, non è mai riuscita davvero a diversificare le sue forniture, rimanendo ostaggio della dipendenza dalle terre rare e dai componenti strategici cinesi. Ogni volta che una catena si inceppa, come è accaduto con il recentissimo stallo sulle forniture di semiconduttori Nexperia tra Pechino e i Paesi Bassi, in Europa scatta il panico: i timori di chiusure temporanee degli stabilimenti non sono più scenari ipotetici, ma possibilità concrete.
Gli economisti tedeschi, con crescente pessimismo, hanno iniziato a pronosticare il rischio di un terzo anno consecutivo di recessione nel 2025. Sarebbe un passaggio storico e traumatico. Le imprese temono settimane di stop forzato alla produzione, che colpirebbero direttamente l’indotto italiano, già appeso a margini sempre più sottili.
A complicare la situazione, si aggiunge la gestione controversa delle risorse pubbliche. Il governo di Friedrich Merz sta spendendo una quantità enorme di miliardi a debito, inizialmente destinati a infrastrutture e difesa, ma ora dirottati verso incentivi e misure poco produttive. Una montagna di stimoli finanziari che gonfierà il Pil del prossimo anno, ma in modo artificiale. Anche “drogata” dagli investimenti pubblici, la Germania è proiettata a un misero +0,9% di crescita: troppo poco per un Paese che dovrebbe trainare l’intero continente.
Ulrike Malmendier, una delle economiste più ascoltate del Paese, lo ha sintetizzato con durezza: «La crescita è fiacca, eppure l’extrabilancio non viene sfruttato per misure che possano stimolare davvero l’economia». Le infrastrutture sono ferme, la spesa pubblica si disperde in sussidi e sgravi, le riforme strutturali «mancano quasi completamente». Una diagnosi che sembra fotografare non solo Berlino, ma anche Roma.
L’Italia, infatti, soffre un ciclo quasi speculare. La nostra manifattura si muove sulla scia della tedesca: ogni frenata dell’auto tedesca si traduce in commesse che saltano per la componentistica italiana. Ogni incertezza sulla chimica tedesca si riflette sulle filiere italiane. Ogni blocco nella meccanica pesante rallenta un sistema già fragile. Il risultato è che l’Italia, che nel 2022 aveva stupito con una ripresa più robusta del previsto, è tornata in una zona grigia di bassa crescita, investimenti incerti, consumi frenati e inflazione sottile che continua a erodere la fiducia delle famiglie.
La fotografia scattata dalla Bce mostra dunque non due Paesi in crisi, ma un intero modello sotto stress: quello delle economie manifatturiere europee fondate sull’export, che si scoprono vulnerabili in un mondo polarizzato tra Stati Uniti protezionisti, Cina ipercompetitiva e un’Unione europea ancora incerta nella sua strategia industriale.
La locomotiva tedesca e il suo vagone italiano, per anni simboli di stabilità, oggi oscillano. E mentre Spagna e Paesi Bassi accelerano, il cuore manifatturiero dell’Europa arranca, lasciando sulla cartina economica del continente una linea sempre più marcata tra chi corre e chi resta indietro.

