La Corte di giustizia europea smonta il piano migranti della premier, ma a Palazzo Chigi insistono: più propaganda che risultati, e milioni di euro già bruciati
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La storia del “modello Albania” somiglia sempre più a una commedia costosa, e nemmeno troppo ben scritta. Doveva essere il colpo da maestro di Giorgia Meloni sulla gestione dei migranti, il simbolo di una politica “forte e chiara” capace di aggirare l’impasse europea. Invece, dopo mesi di proclami, foto in posa davanti ai container di Gjader e Shengjin e conferenze stampa trionfali, la realtà è impietosa: pochi trasferimenti effettivi, costi da capogiro e ora anche una bocciatura sonora dalla Corte di giustizia europea.
Il verdetto è arrivato da Lussemburgo come una lama: il piano italiano non regge sul piano del diritto e dei diritti. Una doccia gelata per Palazzo Chigi, anche se nell’aria da settimane. La premier lo ha appreso in volo verso Istanbul per un vertice sui migranti. Fonti interne parlano di una reazione furiosa: «Ancora una volta la giurisdizione rivendica spazi che non le competono», ha tuonato, accusando i giudici Ue di voler dettare la linea sulla politica migratoria italiana.
Dietro le quinte, però, il nervosismo è palpabile. Perché non si tratta solo di una sconfitta giuridica: il modello sbandierato in campagna elettorale si è rivelato un bluff costoso. I Cpr in Albania, costati milioni tra allestimenti, logistica e sicurezza, hanno ospitato finora un numero di migranti talmente ridotto da far sembrare l’intera operazione un gigantesco set fotografico per la propaganda.
Eppure Meloni non solo non arretra, ma raddoppia la posta. Il nuovo piano, filtrato dai corridoi di Palazzo Chigi e confermato in serata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, prevede di proseguire con i Cpr esistenti e persino di riattivare lo schema originario: soccorso in mare dei migranti e trasferimento lampo a Gjader e Shengjin per la procedura accelerata di riconoscimento. Proprio il meccanismo che la Corte Ue ha di fatto messo in discussione.
Un’ostinazione che ha tutto il sapore della sfida ai giudici. Matteo Salvini, da sempre in prima linea nella guerra verbale contro le toghe, ha colto l’occasione per alzare la voce: «Se i magistrati vogliono fare politica, si candidino. Questa sentenza è uno schiaffo». Più misurato, ma comunque scettico, Antonio Tajani: «La decisione non mi convince, ma avrà effetti limitati».
Dietro i proclami, c’è una realtà difficile da nascondere: il flop operativo e finanziario. Gli accordi con Tirana sono stati venduti come un deterrente epocale, ma hanno prodotto più titoli di giornale che risultati concreti. E ogni viaggio, scorta, trasporto aereo e navale verso l’Albania ha pesato sulle casse italiane, in una stagione di tagli e ristrettezze. Una scenografia costosa, utile solo per raccontare una fermezza che, nei fatti, non c’è.
Meloni, intanto, cerca sponde in Europa. Il nuovo asse è con Mette Frederiksen, premier danese socialista ma dura sull’immigrazione, con cui la leader italiana sogna di spingere il tema migranti in cima all’agenda Ue. Insieme hanno già firmato una lettera per chiedere la riforma della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel tentativo di limitare le interferenze dei giudici. Ma per trasformare gli annunci in fatti servirebbe il sostegno di Berlino, e Friedrich Merz, il cancelliere tedesco, è stato gelido durante la sua visita a Roma lo scorso maggio.
Il risultato è un cortocircuito politico e mediatico: un progetto pensato per mostrare muscoli, naufragato tra ricorsi, verdetti e numeri risibili. Nel frattempo, i migranti continuano ad arrivare sulle coste italiane, mentre i centri albanesi restano più vuoti che pieni.
La verità, amara, è che il “modello Albania” ha funzionato solo come slogan. Ha garantito qualche punto nei sondaggi, foto di container nuovi di zecca e un racconto muscolare buono per la campagna elettorale. Ma sul terreno ha lasciato un conto salatissimo per i contribuenti e un piano smontato pezzo per pezzo dalla giustizia europea.
E ora, invece di fermarsi, il governo rilancia. Come se la scenografia valesse più della sostanza, e i milioni di euro spesi per questo reality politico non fossero soldi pubblici.