I piedi scalzi sui sentieri di terra, il sapore dei maccheroni nei giorni di festa mangiati insieme nelle stessa “limba”, i viaggi in cerca di fortuna (e lavoro). Un ottantenne dalla memoria di ferro ricorda una Calabria che non c’è più
Tutti gli articoli di Storie
PHOTO
È quasi ora di cena. Mentre Piazza Ortona si tinge di oro, Antonio siede su una panchina in compagnia di un amico che da lì a pochi minuti ci avrebbe lasciati soli nel ripercorre i ricordi di questo signore sulla ottantina, entusiasta di condividere il più possibile grazie alla sua memoria di ferro.
Fermata “Memorie di piedi nudi”
«Chi andava al mare aveva il carro con i buoi. Si costruivano delle capanne con le canne e le coperte sopra. Ma andavano i grossi, quelli con i soldi. Il poverello doveva restare a lavorare nei campi. Io da piccolo seguivo i miei genitori, curavamo l’orto. La mattina al lavoro, la sera ci si ritirava. Si mangiava quel poco che si aveva, che si riusciva a coltivare. Nei giorni di festa si cucinava i maccheroni fatti in casa con la carne di maiale, se ci si poteva permettere di allevarlo. Qualcuno andava a caccia e alle volte si portava a casa degli uccelli. Si mangiava tutti insieme, all’interno della stessa “limba” [una ciotola dalle grandi dimensioni]. U “spitu” [un bastoncino appuntino] a uso di forchetta. Non c’erano i tavoli o le sedie. Della legna accatastata fungeva da supporto per la limba, e la stessa cosa si faceva per le sedie. Magari qualcuno andava al mare, anche tra i poveri, ma di rado. Il povero si spostava sempre a piedi. Io sono andato a scuola fino alla quinta elementare. Abitavo a diversi chilometri di distanza, tutti in salita, in una zona tra Roccelletta e Borgia (presso la salita del “Pilacco”). Ogni mattina, con il caldo o con la pioggia, mi riunivo con gli altri compagni e salivamo verso il paese per raggiungere la scuola. Io camminavo scalzo, non avevamo la possibilità di compare le scarpe. Noi eravamo nove fratelli… come avrebbero potuto i miei comprare le scarpe a tutti? O a tutti, o a nessuno! Io le ricevetti in regalo a tredici anni: a tredici anni indossai il mio primo paio di scarpe. Immagina che fatica camminare sempre scalzi, tutti questi chilometri! Su tutti i tipi di terreno. Ma io ero abituato, l’ho fatto fin da bambino. Anche quando giocavamo, saltavo, strisciavo, sempre scalzo. Giocavamo alla campana, al pizzo, a bocce. Ma mica con le bocce vere: usavamo delle pietre piatte, a forma tonda o quadra, che venivano lanciate».
Fermata “Memorie di biciclette”
«Del mare ricordo che la gente si riuniva in gruppo per andare a vedere la Madonna al mare “alla Marina” [a Catanzaro Lido]. Si partiva a piedi, tutti in corteo, uomini e donne. A scendere era facile; il problema era risalire. Qualche tempo dopo si era fatto un passo avanti e qualcuno iniziò a comprare le biciclette. Erano gli anni ‘50-‘60, quindi le più gettonate erano le Legnano e le Doniselli. Non circolavano molte auto. La prima che ricordo di avere visto a Borgia apparteneva a un avvocato ed era una 1.100 nera, targata 12647. Pensa quante volte l’ho guardata, ammirata, se ancora oggi la ricordo! Ma io ho una memoria di ferro.»
Fermata “Memorie di partenze e ritorni”
«Ventenne, il 6 marzo del ‘63 partii verso Palermo per trovare lavoro. Erano le 4 del mattino. Ricordo tutte le fermate. Il 3 giugno me ne andai verso Pordenone. Anche qui, ricordo tutte le fermate, tutti gli orari, la sensazione di sedere sui sedili in legno della tradotta militare: scomodi, ma con un enorme senso di libertà. Purtroppo incontrai eventi spiacevoli. Quando ci furono i temporali nell’ottobre del ‘63 che fecero crollare la diga del Vajont - con tutta la tragedia che ne conseguì - io ero accampato con i compagni militari nel torrente Meduna. Eravamo vicinissimi. Stavamo sempre in allerta, pronti a scappare. Ma fortunatamente le cose non andarono male per me. Sempre militare, nel ‘64 partecipai alla marcia del 2 giugno a Frascati, al seguito di un Capitano originario di Mammola. Il 4 giugno rientrai a casa, in Calabria, nella mia Borgia. Penai un po’ per trovare lavoro, ma era qui che volevo restare, quindi mi diedi da fare. Provai anche ad andare in Svizzera, lavorando nelle ferrovie. Noi italiani veniamo chiamati “zingari”. Ma io resistevo, ero onesto, i capi svizzeri lo vedevano in me e avevano piacere che lavorassi per loro. Ma la situazione con altri colleghi non era ottimale. Ci rimasi quasi quattro anni, ma poi il bisogno di tornare a casa sovrastò tutto il resto. Fortunatamente.»