Liberata ha compiuto 86 anni l’11 maggio di quest’anno. Ci tiene a sottolinearlo, ne va fiera, perché per lei significa aver vissuto tante esperienze. Talmente tante da poterci scrivere un libro (e così è stato, letteralmente). Intanto, con noi ha ricordato alcuni momenti delle sue estati a Girifalco quando era bambina.

Fermata “Memorie di devozione”

«Io sono una persona molto religiosa. I miei ricordi d’estate più belli sono legati alla festa di San Rocco. Quando ero piccola, il prete dopo aver ricevuto le buste delle offerte, rendeva pubblico il nominativo di chi aveva partecipato e la relativa somma inserita. Un tempo c’era più fede. La piazza della chiesa di San Rocco era gremita di gente, venivano da diversi paesi per devozione. Non per vedere il cantante come oggi, ma per vedere il santo e votarsi a lui. Tutta la settimana del 16 agosto [giorno in cui si celebra ancora oggi San Rocco] venivano in pellegrinaggio. All’interno della chiesa entravano anche le vacche, accompagnate dai contadini alla messa delle 11 per votarle al santo. In testa legavano loro un fiocco con i soldi, e quando si avvicinavano alla statua, persino le vacche si prostravano ai suoi piedi. Che fede che avevano anche gli animali! Mi viene da piangere di fronte a queste immagini che sto rivivendo.

In passato, i santi in processione passavano per tutti questi “vineddhuzzi” [vicoletti] dislocati, che al tempo erano malmessi. E ognuno faceva il voto al santo secondo quanto possedeva. Non si avevano molti soldi. Alcuni piantavano il basilico con il filo d’oro e un ramo di questo prendeva il posto del denaro come offerta per il voto. La povertà era aggravata anche dalla Seconda Guerra Mondiale. Mezzo kg di pane doveva sfamare cinque persone. Noi avevamo i terreni, ma mio padre era via per la guerra e mia mamma non era molto avvezza alla vita contadina. Li affidava, quindi, al “cinenaru” [contadino] sperando di ricevere poi il raccolto. Io, però, ero piccolina ma furba e mi rendevo conto che a noi davano gli scarti mentre loro tenevano per sé il raccolto buono, dicendo che i terreni non davano frutto.

Nel ‘46, mio padre andò a Cortale alla festa di Santa Croce e comprò un asinello. Un giorno, mentre ero in groppa per le viuzze, l’asinello iniziò a galoppare e inciampò. facendomi battere con la testa e il collo contro una pietra. Svenni e mi apparve la Madonna del Rosario che mi aiutò a rialzarmi. Mi è capitato più volte di avere apparizioni o segni legati al mondo religioso. Quando sono stata operata di tumore nel 2014, nell’anguria mi è uscita la scritta “Maria”, il nome della Madonna. E poi sono venute diverse persone in pellegrinaggio qui da me a vederla.

I santi mi appaiono quando sto male. Io sono restia ad andare in ospedale, ma quando sto troppo male il santo di turno viene a farmi ragionare per indirizzarmi verso la struttura competente. Iniziò tutto quanto ero piccolina. Papà era in guerra, io dormivo nel lettone di mamma, nella parte davanti. E lì pregavo il cuore di Gesù: “Cuore di Gesù mio, mu si nda vena mio padre, mu si ricogghjia d’a guerra, mu lavora e nommu ni manca nenta”. [Cuore di Gesù mio, fa che mio padre ritorni dalla guerra e inizi a lavorare in modo da non farci mancare nulla]. Un giorno di settembre, all’alba, dalla finestra mezza rotta che avevamo, riuscì a scorgere una nuvola piena di luce che pian piano entrava nella stanza per avvicinarsi al lettone. Quando si dissolse, svelò il cuore di Gesù, quello che abbiamo ancora oggi nella chiesa di San Rocco. Allora, in quel momento ripresi a pregare chiedendogli di far tornare papà e di darci da mangiare visto che pativamo la fame. Il cuore di Gesù mi fece dei segni, mi sorrise per rassicurarmi che se ne sarebbe occupato Lui. Dopo tre mesi, papà tornò dalla guerra».

Fermata “Memorie di vottandìari”

La via in cui ci troviamo adesso si chiamava “vottandìari” perché c’erano tre concerie. A me piaceva osservare gli operai mentre lavoravano le pelli, mettendosi su una specie di trave e spellandole tramite il rasoio a due manici.

Sempre in questa zona, c’erano tanti mulini ad acqua, il macello, negozi e botteghe. Oggi non è rimasto niente da queste parti. Ci sono i negozi moderni in altre zone e forse è rimasta qualche bottega artigianale, ma niente di più. Durante la guerra, i tedeschi giravano sempre per le strade e facevano razzia di tutto il cibo che avevamo. Si impadronivano anche dei gioielli. Se qualcuno aveva qualcosa di prezioso, doveva nasconderlo nel letame del maiale.

Per evitare che ci rubassero il grano, lo nascondevamo nella “sporta” [un grande cesto] sotto la biancheria, perché usavamo fare il bucato al fiume. Anche io andavo da piccolina e con il mio piccolo cesto cercavo di emulare le signore reggendolo in equilibrio sulla testa. Almeno finché non sono cascata dall’asino, poi non ho più potuto. Fortunatamente la guerra finì e iniziammo a coltivare insieme a mio papà in modo da goderci i fagioli, i pomodori, le patate, le noci, le castagne, i fichi. I fichi secchi venivano usati al posto del pane. Il grano non era così facile da ottenere, mentre i fichi fortunatamente abbondavano. Mia mamma a volte andava a San Floro per barattare le noci o con le castagne infornate con i fichi secchi. Noi abbiamo vissuto negli anni della vera fame. Una volta avevamo un pugno di ceci. In casa eravamo in sei, comprese mia nonna e mia zia. Mamma mise a bollire questi ceci in una “pignateddha” [piccolo recipiente in ceramica o terracotta preposto alla cottura alimentare] e mia zia a furia di assaggiarli per capire se fosse cotti, li finì. Erano veramente molto pochi. Un’altra volta andammo a raccogliere le cicorie. Mi lasciarono sola con i sacchi pieni di verdure. Dalla fame, iniziai a mangiarle crude, piene di terra e vermi, finendole tutte. La gente moriva di stenti, letteralmente».

Fermata “Memorie di passioni antiche”

Fin da piccola guardavo con ammirazione il modo di vestire delle signore più grandi. Il panno sciolto rosso tutto ricamato, “u dubbriattu” (una sorta di gonna sul vestito), “a foddhalicchjia” (il grembiule)... tutto curato in maniera maniacale. Tale ammirazione si tradusse nella fondazione dell’Associazione culturale “Le Pacchiane” di cui sono presidente. Abiti tipici di un tempo, musiche, canti e balli popolari, sono il nostro modus per tenere ancora vive le tradizioni e farle conoscere ai più giovani, spostandoci di paese in paese. Qualcosa degli abiti mi è stato tramandato da mia nonna o mia mamma e quindi ha superato diversi secoli. Alcune cose le ho lasciate intatte, su altre ho dovuto fare dei ritocchi, tra ricami e tinte. Un’altra passione che ho maturato da piccolina è l’opera, tramandata da papà. Mia figlia è un soprano. Conservo ancora tre giradischi e una cassapanca piena di dischi, dalla Traviata alla Cavalleria Rusticana. Ancora oggi per me la musica è terapeutica. Quando mi sento male, ascolto della musica e mi riprendo.