C’è una scena che si ripete, ogni sera, in molti ristoranti e caffè: bambini, di tre, quattro, cinque anni, seduti e composti sul seggiolone o sulla sedia, con il viso illuminato da un piccolo schermo. Attorno a lui, le voci dei genitori si intrecciano con il rumore delle posate, ma lo sguardo del piccolo è ipnotizzato da quella luce che lo cattura e lo isola. È un’immagine divenuta abitudine, e forse proprio per questo preoccupante nella sua normalità.

Nessun atto di accusa verso le madri e i padri, spesso fiacchi e in cerca di una tregua dopo giornate spossanti. È piuttosto un invito a riflettere sul contenuto profondo di quella resa: il rifiuto a condividere, anche solo per pochi minuti, un momento di presenza, di scoperta, di relazione. Dare un telefono in mano ai piccoli sembra una soluzione tranquilla, quasi tenera. Il bambino tace, senza lamenti e senza disturbi. Ma la pacatezza che si ottiene è un silenzio insolito, narcotizzato.

Il gioco, la curiosità, la noia stessa, sono elementi indispensabili della crescita, giungono sospesi come in un vuoto artificiale. I bambini si distaccano dalla realtà, dentro un riflesso luminoso che ne imita i colori e le forme, privandoli però di odori, rumori, consistenze, persino al tattile. C’è una differenza abissale tra l’osservare un cigno che lambisce l’acqua di un lago e guardare un animale su uno schermo. Spesso dimentichiamo la vita vera tridimensionale, ruvida, imprevedibile. E i bambini hanno un bisogno urgente di realtà.

Molti educatori, insegnanti e pedagogisti concordano che la noia è un laboratorio creativo. È nel vuoto che il bambino inventa, immagina, crea connessioni. Un foglio e una matita sembrano essere semplici strumenti, sono in verità delle strade verso la fantasia, occasioni di narrazione. Disegnare, colorare, tracciare linee imprecise sul tovagliolo di carta di un ristorante è un modo per dare forma al pensiero, per restare presenti e curiosi dentro la realtà.

L’immaginazione si allena, si coltiva e si cura come fosse un giardino. Serve tempo, lentezza, piccole pause di noia fertile. Senza di esse, l’intelletto infantile rischia di diventare un terreno spoglio, sottomesso da immagini preconfezionate. Le cene, in ogni epoca e cultura, sono state cerimonie di relazioni, incontri, il momento in cui i membri di una famiglia si guardano negli occhi, si raccontano, si ascoltano.

Eppure, anche un piccolo gesto, come passargli un cucchiaio, oppure un pennarello, chiedergli di disegnare ciò che vede, invitarlo a contare i bicchieri, farlo parlare con il cameriere magari chiedendogli gentilmente dell’acqua; tutto questo, può restituire senso al momento condiviso. Sono attività di una potenza pedagogica enorme, insegnano la concentrazione, la comunicazione, l’attenzione per l’altro.

Viviamo in un tempo in cui ogni fastidio trova una soluzione immediata. Se un bambino piange, si accende uno schermo; se un adulto è triste, scorre dei video sui social. Tutti questi gesti immediati impoveriscono la capacità di tollerare la frustrazione, di attraversare l’attesa. Il rischio, quando si abituano dei bambini molto piccoli alla gratificazione digitale, è che egli concepisca il mondo come un’estensione dei propri desideri, e dunque, basta toccare per ottenere.

La crescita umana è fatta proprio di tempi lunghi, di pause, di errori, di ripetizioni e anche di paure. Un bambino che impara ad aspettare la pizza o ad ascoltare le voci intorno a sé sta imparando, inconsapevolmente, la grammatica della vita. Quando un genitore offre un libro (magari anche fotografico) invece di un video, compie un atto di fiducia, crede nella capacità del bambino di permanere la realtà, di incuriosirsi al mondo senza mediazioni.

È una questione sociale. Quando nei locali vediamo file di tavoli dove adulti e bambini mangiano insieme senza guardarsi, stiamo osservando una trasformazione antropologica, la perdita dell’attenzione reciproca. La tecnologia è una scoperta sensazionale e in molti casi può diventare un vero supporto didattico, soprattutto nelle disabilità, che sta divenendo uno strumento di lavoro molto efficace; se invece invade i territori simbolici della relazione, diventa uno strumento nocivo, un disfacimento sociale.

Per questo l’argomento va trattato senza moralismi, ma con etica e responsabilità. Ristoratori, insegnanti, famiglie, politica, potrebbero collaborare per restituire ai bambini spazi di libertà analogica: angoli per disegnare, scaffali di libri illustrati, tovagliette da colorare. Gesti semplici che dicono molto più di numerosissime campagne educative. Riconsegnare ai bambini la dimensione del vivere nei ristoranti, nei parchi, nelle case, è un atto culturale e affettivo.

Nessuna demonizzazione alla tecnologia, basta soltanto ricordare che ogni bambino per crescere, ha bisogno prima di tutto di sguardi, mani, silenzi pieni di presenza. E forse, un giorno, saranno proprio quei bambini, cresciuti tra colori, parole e realtà, a insegnarci di nuovo come si sta davvero al mondo.