Le luci autentiche della festa arrivano con i treni pieni, con le auto cariche fino al tetto, con le valigie trascinate sui marciapiedi, con gli abbracci improvvisi davanti ai portoni. La città, per qualche giorno, smette di essere un luogo di partenze e torna a essere un luogo di ritorni
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Si accendono le luci del Natale sulla città, ma non è mai l’inaugurazione delle luminarie a segnare l’inizio vero delle feste. Le luci autentiche arrivano prima e insieme dopo: arrivano con i treni pieni, con le auto cariche fino al tetto, con le valigie trascinate sui marciapiedi, con gli abbracci improvvisi davanti ai portoni. Si accendono quando tornano quelli che vivono altrove. Quando la città, per qualche giorno, smette di essere un luogo di partenze e torna a essere un luogo di ritorni.
È allora che succede qualcosa di strano, quasi indecifrabile. Per una manciata di giorni si vive la sensazione netta di ciò che poteva essere e non è stato. Una città che riprende fiato, che sembra improvvisamente più giovane, più affollata, più rumorosa. I bar pieni anche di pomeriggio, le strade percorse da passi che non riconosci subito ma che senti familiari, le voci che si sovrappongono, i dialetti che tornano a essere lingua viva, non reliquia. È un tempo sospeso, il Natale: una parentesi emotiva in cui la realtà concede una tregua e si lascia guardare attraverso il filtro della nostalgia.
La mia mente, ogni anno, torna automaticamente alla città della mia giovinezza. Non per scelta: è un riflesso, quasi un meccanismo involontario. Le immagini si accavallano e si fondono. Le piazze di allora e quelle di oggi, i volti che non ci sono più e quelli che sono invecchiati insieme a me, le promesse non mantenute e quelle che non abbiamo nemmeno avuto la possibilità di formulare. Tutto si mescola: il ricordo e il presente, l’illusione e la disillusione, l’amore per un luogo e la rabbia per ciò che non è diventato.
Il Natale, in Calabria e nella mia città, è anche questo: un grande esperimento sociale che dura quindici giorni. Una prova generale di normalità. Per un attimo sembra possibile ciò che per il resto dell’anno appare irrealizzabile: che i giovani restino, che le case non siano vuote, che i tavoli siano apparecchiati per più di due persone, che le conversazioni non inizino sempre con “io ormai vivo fuori”. È una finzione collettiva, certo, ma non per questo meno potente. Perché dentro quella finzione c’è un desiderio autentico, quasi disperato: l’idea che un’altra storia fosse possibile.
Il Natale, qui, non è soltanto una festa: è la prova generale di una vita che non abbiamo avuto la possibilità e la capacità di trattenere.
Basta guardare le stazioni e gli aeroporti in quei giorni. Pieni fino all’inverosimile. Code interminabili, annunci che si sovrappongono, valigie accatastate, abbracci frettolosi, occhi che cercano un volto tra la folla. Un’umanità compressa nel gesto del ritorno. È lì che si misura la distanza tra ciò che siamo e ciò che avremmo potuto essere. Perché nessuno torna per caso: si torna dove qualcosa è rimasto aperto, anche solo come ferita.
Camminando per la città illuminata, mi accorgo che le luci non servono a nascondere le crepe. Al contrario, le rendono più visibili. Illuminano spazi che hanno smesso di avere un futuro e strade che sopravvivono per inerzia. È una luce che non promette nulla: si limita a rendere visibile ciò che, durante l’anno, scegliamo di non vedere.
C’è un momento preciso, durante le feste, in cui questa contraddizione diventa quasi fisica. È quando incontri qualcuno che non vedevi da anni. Bastano pochi minuti per aggiornarsi, per dire “ti ricordi?”, per sorridere. Poi, inevitabile, arriva la domanda: “E tu, adesso?”. È lì che capisci che il tempo non è passato allo stesso modo per tutti, che alcune strade si sono allontanate irrimediabilmente. Il Natale non cancella le distanze, le rende solo più sopportabili. Per qualche giorno.
Nonostante tutto, continuo a pensare che queste luci abbiano un senso. Non perché promettano un futuro migliore, ma perché ci costringono a guardare in faccia il passato. A fare i conti con quello che siamo stati e con quello che non siamo riusciti a diventare. Il Natale non è una festa innocente: è uno specchio. E non sempre ci piace quello che riflette.
Poi, finita la festa, le stazioni stracolme si svuotano, e i treni ripartono carichi di assenze. La città resta, più grande di prima, perché è tornata a contenere solo chi non ha avuto o voluto alternative. Le luci restano accese ancora qualche giorno, ma non illuminano più nessuno. Servono solo a ricordarci che, per un breve momento, abbiamo abitato una possibilità.
E che non era una festa.

