Uno dei fenomeni comunicativi principali della società contemporanea, soprattutto dopo la crisi pandemica, consiste nella contrapposizione acritica e polarizzata tra due fazioni su ogni tema, contrapposizione estrema che non analizza mai i fenomeni nel merito, ma li riduce ad uno scontro tra ultras.
Uno dei campi di battaglia più discussi è rappresentato dai programmi di inclusione. Ha destato infatti molto scalpore l’atteggiamento di Trump che ha, di fatto, messo fine a molti dei programmi del governo americano che promuovevano l’inclusività. Ma è del tutto sbagliato questo atteggiamento?

Per dare un giudizio meno fazioso, bisognerebbe considerare l’inclusione da un punto di vista critico. Cadute le basi ideologiche della democrazia post bellica, siamo entrati in un’epoca che proclama ad alta voce i propri intenti inclusivi. Dalle università alle aziende, dai festival cinematografici ai concorsi pubblici, ogni istituzione si mostra desiderosa di ospitare più donne, più persone LGBTQ+, più membri di minoranze etniche.

A una prima lettura, si tratta di un notevole passo in avanti verso una società più equa. Eppure, come nota il filosofo slovenoneomarxista Slavoj Žižek, c'è qualcosa di profondamente contraddittorio in questo entusiasmo per l’inclusione. Superando il dialogo tra le diverse anime per decreto, non stiamo superando le discriminazioni, ma le stiamo riformulando in chiave estetica e ideologica. Superando i principi costituzionali, invece di considerare tutti gli uomini uguali, si tende a romanticizzare la diversità, dandone una connotazione positiva che non ha nessuna base reale.
Inoltre, il problema non è l’inclusione in sé, che è un principio giusto e da difendere, ma l’uso politico strumentale e moralistico che se ne fa. Il multiculturalismo liberale si limita a tollerare le differenze, a patto che esse restino decorative, a condizione che esse rimangano a margine e funzionali alla riproduzione de sistema stesso. In altri termini, l’inclusione viene adottata non per cambiare realmente la struttura del potere, aprendo la società e le sue opportunità a più attori, ma per fornire un’immagine più accettabile delle strutture e delle barriere di esclusione della società odierna. Si crea così una falsa rappresentazione della giustizia: non si corregge l’ingiustizia, la si estetizza e la si colora di un significato arcobaleno; si maschera ma non si elimina.

In molti contesti, si passa, troppo facilmente, dalla valorizzazione del merito alla valorizzazione dell’identità. Non è più la qualità di un progetto, la preparazione accademica o la visione di lungo termine a determinare la scelta, ma l’appartenenza a una categoria protetta, quasi fosse una medaglia etica da esibire, o un connotato di superiorità morale. Così, chi appartiene a una maggioranza neutra e silenziosa, come i rappresentanti della vecchia classe lavoratrice e dell’ex ceto medio, si trova ad essere paradossalmente escluso in nome dell’inclusione. Sempre Žižek ci invita a diffidare di queste dinamiche perché esse creano distorsioni cognitive, agiscono come una forma di “supremazia della vittima”, promuovendo un nuovo moralismo assoluto, in cui il valore viene attribuito ad una ipotetica sofferenza subita e non alla capacità di contribuire a un progetto comune o al miglioramento della società. È il rovesciamento illusorio della meritocrazia: il talento cede il passo al trauma, la competenza all’identità, la professionalità cede il posto al genere di appartenenza.

L’obiettivo originario dell’inclusione era (e dovrebbe restare) quello di eliminare le barriere strutturali che impediscono la mobilità sociale: povertà, discriminazione, lavoro precario ed emarginazione. Ma ciò che vediamo oggi è la costruzione di una narrativa iper liberista in cui la minoranza ha valore in quanto tale, a prescindere dal contesto; è solo necessario che essa sposi l’Idea del mercato al di sopra di tutto e tutti. Si tratta, per dirla ancora con Žižek, di una “falsa libertà”: si moltiplicano le scelte superficiali (più colori, più quote, più rappresentanze) ma si evita di toccare il cuore del problema: chi decide, e in base a quali criteri.

Dietro questo processo, spesso si cela una comoda ipocrisia. L’élite globale, infatti, può permettersi di essere “inclusiva” proprio perché siede alla cima della catena alimentare, essa non vive le contraddizioni delle persone comuni e non ha nulla da perdere nel cedere simbolicamente il potere a soggetti che non minacciano davvero le sue strutture. A un consiglio di amministrazione interessa poco che vi siedano anche donne o persone LGBTQ+, finché queste condividono le stesse logiche neoliberiste che si sono rivelate, nei processi concreti di redistribuzione della ricchezza, mai inclusive verso le classi lavoratrici che sono rimaste sfruttate, precarie ed emarginate.

In definitiva, non è sufficiente includere “più voci”, non è sufficiente mettere più donne al potere se tutte sono chiamate a cantare lo stesso spartito, veicolando le idee delle classi egemoni. L’inclusione, quella vera ed autentica dovrebbe smettere di essere solo un’operazione estetica, dovrebbe svestirsi dei suoi connotati arcobaleno e trasformarsi in un processo di ridistribuzione reale delle opportunità, dove il merito non viene soffocato dall’identità e la giustizia non si riduce a una sfilata di simboli.