Da anni va avanti un grande imbroglio: la narrazione di un Paese che Paese non è. Siamo responsabili tutti: chi ha governato e chi ha taciuto, chi ha votato e chi si è arreso, chi ha raccontato menzogne per evitare il conflitto e chi ha cavalcato la rassegnazione
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Ci sono mattine in cui la Calabria sembra un lungo respiro trattenuto, una pausa che non finisce mai. Ti affacci e vedi un paese che ha cieli meravigliosi e statistiche impietose, il mare che abbraccia tutto e un aeroporto che svuota le generazioni. Siamo ultimi: lo dice il “Sole 24 Ore”, lo ripete ogni anno la classifica sulla qualità della vita, e lo conferma l’Istat con un pudore che non consola. Ma prima di indignarsi per l’ennesimo primato al contrario, bisognerebbe avere il coraggio di porsi una domanda che nessuno fa: quei parametri sono davvero sovrapponibili? Ha senso misurare il Nord e il Sud con lo stesso metro, come se fossero figli della stessa storia, della stessa economia, dello stesso destino? Perché se un errore c’è, e c’è da centosessantatré anni, è proprio questo: far finta che il Paese sia uno, quando non lo è mai stato.
L’Unità d’Italia non è un fatto compiuto: è un lavoro interrotto, una promessa non mantenuta, un’illusione diventata abitudine. Forse l’abbiamo voluta raccontare come un trionfo proprio perché non avevamo il coraggio di guardare cosa c’era dietro: due velocità, due alfabeti sociali, due economie, due immaginari. Il Nord delle fabbriche, dell’industrializzazione rapida, delle infrastrutture che crescevano come spine dorsali; e il Sud dei latifondi, delle strade mai finite, dell’emigrazione come unica politica attiva. Nel 1861 i tassi di alfabetizzazione al Sud erano inferiori al 20%, al Nord superavano il 50%. Un secolo dopo, gli anni del miracolo economico furono miracolo per alcuni e crollo per altri: nel 1955 il reddito pro capite del Nord era il doppio di quello del Mezzogiorno; nel 2024, secondo Banca d’Italia, il divario è tornato praticamente identico. Centosessant’anni buttati in un cerchio che non si spezza.
È qui che la politica dovrebbe inginocchiarsi davanti alla sua stessa storia e ammettere il fallimento. Non della destra o della sinistra: della Repubblica intera. Perché non c’è colore che tenga quando il risultato è lo stesso da decenni. Ogni governo ha promesso di “unire l’Italia”: nessuno l’ha fatto. Hanno cambiato le parole: rilancio, coesione, sviluppo, Pnrr, ma non la sostanza. Il Sud è rimasto una questione, non una soluzione. Una emergenza, non una strategia. Un serbatoio elettorale, non un investimento. Nel 2023 oltre 140.000 giovani meridionali hanno lasciato il loro territorio; di questi, più della metà ha un titolo universitario. È l’emigrazione più istruita della storia d’Italia. È il Nord che importa capitale umano, e il Sud che lo genera per poi perderlo. È lo stesso schema del 1900, con la differenza che allora si partiva con la valigia di cartone; oggi si parte con una laurea, un master, un dottorato.
Le diseguaglianze non sono solo economiche, sono culturali, infrastrutturali, sociali. In Calabria il tasso di occupazione giovanile è al 22%, il più basso in Europa. I treni regionali viaggiano mediamente a 58 km/h, come nel 1975. La spesa sanitaria pro capite è inferiore del 30% rispetto alle regioni settentrionali. Eppure, ogni anno, politici e istituzioni si affannano a raccontare un Sud che “sta migliorando”: nessuno dice che migliorare del 2% quando parti dall’ultimo gradino è un modo elegante per restare ultimi.
E qui c’è un altro punto che la politica evita accuratamente: la responsabilità non è soltanto nazionale. Anche la classe dirigente meridionale, destra, sinistra, autonomisti, tecnocrati, trasformisti, ha fallito. Per decenni ha costruito consenso non attraverso la crescita ma attraverso la dipendenza, non attraverso l’innovazione ma attraverso le clientele, non attraverso la visione ma attraverso la gestione dell’emergenza permanente. È un fallimento nella guida, nell’etica pubblica, nella capacità di immaginare il futuro. E ignorarlo sarebbe l’ennesimo inganno.
I falsi trionfalismi non servono a niente e a nessuno. Non servono ai propagandisti che vivono di storytelling, non servono ai catastrofisti che trasformano il dolore in carriera, e non servono al popolo che da anni è spettatore di un grande imbroglio: la narrazione di un Paese unito che unito non è. Siamo responsabili tutti, perché tutti abbiamo partecipato: chi ha governato e chi ha taciuto, chi ha votato e chi si è arreso, chi ha raccontato menzogne per evitare il conflitto e chi ha cavalcato la rassegnazione. Nessuno si salva.
E allora, per una volta, proviamo a guardare fuori confine. La Germania ha fatto in trent’anni ciò che noi non siamo riusciti a fare in centosessanta. Nel 1990 la Germania Est aveva un Pil pro capite inferiore del 40% rispetto a quello dell’Ovest: oggi il divario è sceso a meno del 10%. Hanno unito due mondi che si erano specchiati come nemici, due economie dissociate, due culture lacerate. Lo hanno fatto investendo il 5% del Pil per anni, costruendo infrastrutture, assorbendo la disoccupazione di massa, dando dignità ai territori e fiducia ai cittadini. Noi, invece, non siamo riusciti a portare cinque regioni, cinque, non un intero blocco geopolitico, al livello del resto del Paese. La Germania ha cucito una ferita. L’Italia l’ha coperta con una bandiera.
E anche l’occasione storica del Pnrr, una volta tanto con risorse enormi, obiettivi chiari e vincoli stringenti, rischia di essere l’ennesimo treno perso. Ritardi, progetti incompleti, enti locali senza personale sufficiente, conflitti istituzionali, ricorsi: mentre l’Europa corre, noi cerchiamo ancora chi deve firmare. E questa volta non ci sarà un’altra occasione: o il Sud lo si alza ora, o lo si lascia dov’è per sempre.
La verità è che non ci siamo mai presi la responsabilità politica, civile e morale di unire davvero questo Paese. Abbiamo preferito narrare la nazione anziché costruirla. Il Mezzogiorno è diventato un alibi: per i governi incapaci, per l’opposizione smarrita, per la burocrazia che giustifica il proprio immobilismo, per la criminalità che riempie i vuoti. Ma la realtà non si sposta di una virgola: il Paese è diviso in due e lo è più di prima. L’unificazione è rimasta sospesa. La Repubblica ha fallito dove avrebbe dovuto riuscire.
Io sono nato in questo Sud che parte e che torna, che si lamenta e che resiste, che aspetta e che sopravvive. E lo dico con una sincerità inevitabile: non ci serve pietà, ci servono regole, organizzazione e diritti. Non ci serve retorica, ci servono strade. Non ci servono slogan, ci serve un lavoro che non sia un favore. Non ci serve sentirci dire che “stiamo migliorando”: ci serve che qualcuno, una volta per tutte, governi questo paese come se fosse uno solo.
E forse è proprio qui che si gioca tutto: nella volontà di smettere di raccontare l’Italia che vorremmo e iniziare a costruire l’Italia che non abbiamo mai avuto. Un’Italia capace di rendere il Sud non più la periferia del Paese, ma la sua seconda spina dorsale. Un’Italia che non faccia partire i giovani, ma le idee. Un’Italia che metta fine alla separazione silenziosa che ci accompagna da generazioni. Un’Italia che, finalmente, si assuma il coraggio di unirsi.
Perché l’Unità d’Italia non è avvenuta nel 1861.
Potrebbe avvenire adesso.
O potrebbe non avvenire mai.

