A Ferrara, il Consiglio degli Studenti ha approvato una proposta per intitolare un’aula studio a Charlie Kirk, attivista statunitense ucciso durante un evento universitario nello Utah. L’ateneo ha precisato che la decisione finale spetterà agli organi accademici, ma il punto è già chiaro: non si tratta di un episodio locale. È un test per capire che cosa l’università intenda premiare quando assegna un nome ai suoi spazi e quali valori intenda proiettare verso la comunità.

La violenza che ha portato alla morte di Kirk, che va condannata senza esitazioni, è comunque anche frutto di ciò che lui stesso predicava senza vergogna. Un’intitolazione non è un generico esercizio di libertà d’espressione: è una scelta di riconoscimento simbolico. In un luogo che si regge su metodo, prove e responsabilità pubblica della parola, quel riconoscimento dovrebbe andare a chi ha contribuito ad allargare il campo della conoscenza o a rafforzare la qualità civile della discussione. Il profilo di Kirk, associato nel dibattito a campagne che hanno alimentato polarizzazione, disinformazione su temi scientifici e pratiche di proscrizione accademica, entra pesantemente in attrito con questa idea di università.

Qui sta l’equivoco: discutere in aula di qualunque tema, anche divisivo, è fisiologico e persino desiderabile; canonizzare una figura con un’intitolazione è un atto completamente diverso. Mescolare i due piani significa trasformare la neutralità metodologica dell’università in un neutralismo simbolico che finisce per sdoganare come “meritevole” ciò che contraddice la responsabilità epistemica che tutti, in un campus, dovremmo condividere.

C’è poi un’altra deriva: importare nel nostro contesto le culture wars statunitensi. L’università italiana ha una tradizione fatta di dissenso regolato e di merito pubblico misurato su risultati scientifici, didattici e di servizio. Trasportare simboli nati per energizzare conflitti identitari in altri contesti produce un effetto prevedibile: gli spazi comuni smettono di favorire il confronto e diventano palchi per appartenenze. Ne risulta un «clima di campus» più rumoroso ma meno libero, più performativo e meno rigoroso.

Se proprio vogliamo discutere di intitolazioni, facciamolo con bussola chiara. Un’università credibile valuta il contributo dimostrabile alla conoscenza o alla vita civile della comunità, l’allineamento ai principi di libertà accademica e responsabilità scientifica, l’impatto sul clima interno e sull’immagine pubblica, la trasparenza del procedimento. Non servono liturgie, bastano poche regole leggibili e un’istruttoria accessibile a studenti e personale.

Ci sono anche alternative più utili al fine formativo. Se l’obiettivo è educare al confronto e ricordare la fragilità dello spazio pubblico, si possono organizzare cicli seminariali su libertà di parola, metodo scientifico e deontologia dell’informazione; si possono intitolare spazi a scienziate e scienziati, docenti, bibliotecari e tecnici che hanno migliorato la vita accademica; si possono istituire borse di studio dedicate al contrasto della disinformazione. Sono scelte meno appariscenti, ma più coerenti con la missione dell’università.

In definitiva, tenere l’università fuori dalle guerre culturali non significa sterilizzarla. Significa difenderne la funzione: un luogo dove idee anche opposte si misurano sotto regole comuni e dove il riconoscimento simbolico non premia la visibilità, ma il merito pubblico. Nel caso di Ferrara, la discussione è un’occasione per ribadire un principio semplice: l’università non censura, ma non canonizza ciò che contraddice il suo patto fondativo. La scienza, l’insegnamento e il servizio alla comunità hanno bisogno di spazi condivisi, non di totem identitari.

Prima di ogni delibera, gli organi accademici dovrebbero chiedersi: l’intitolazione rafforza o indebolisce il clima di libertà accademica? È coerente con i criteri di responsabilità epistemica dell’ateneo? Le motivazioni sono pubbliche e verificabili? Esistono vie alternative che raggiungono meglio lo stesso obiettivo formativo?

Un’università matura separa il conflitto identitario dalla ricerca della verità. Non rinuncia al confronto, ma rifiuta di trasformare le aule in palcoscenici per guerre simboliche. Perché il riconoscimento istituzionale è un bene raro: va conferito a chi lo merita secondo regole chiare, non a chi alimenta il rumore.