Gli sviluppi della questione palestinese impongono un'azione immediata che interrompa il genocidio di un popolo ma, anche, qualche riflessione sui concetti di “Stato nazionale” e “diritto al ritorno” e su quella loro esasperazione che ha condotto alla situazione attuale. La sovranità ebraica di matrice sionista non sembra valere tutto il dolore e la devastazione che ha prodotto e, già molto tempo fa, avrebbe dovuto cedere il passo a qualcosa di diverso, qualcosa che sia più aperto e meglio vivibile.

Lo sosteneva Edward W. Said, noto intellettuale nato a Gerusalemme e scomparso nel 2003, in una bella intervista rilasciata ad Ari Shavit a New York nell'agosto del 2000. Costretto a lasciare la sua casa in Palestina, Said era convinto che la risoluzione del conflitto tra il suo popolo e gli israeliani dovesse passare necessariamente da una chiara assunzione di responsabilità che prevedesse il riconoscimento della distruzione che l'intervento sionista ha prodotto nella società palestinese, degli espropri a danno della popolazione palestinese e della confisca della loro terra.

La convinzione dell'autore di Orientalismo e di Dire la verità si fondava sull'evidenza dell'assunto che segue: la proprietà della terra e la libertà di movimento di un popolo non possono in alcun modo inficiare l'accesso alle risorse e i diritti di un altro.

È per questo che, già nella scelta delle parole con le quali si è narrata questa sanguinosa vicenda, sarebbe stato necessario rinunciare a contrapposizioni troppo radicali che sono equivalse “a sventolare una bandiera rossa di fronte a un toro arrabbiato”.

E, allora, non si sarebbe dovuto neanche parlare di esproprio delle terre adesso in mano alla popolazione ebraica, ma caldeggiare la franca ammissione che altri sono stati espropriati e derubati dei loro diritti. Rinunciando alla scelta nazionalista e alla rigida tendenza ad arginare, anche militarmente, che essa prevede, si sarebbero create le condizioni affinché la minoranza ebraica potesse convivere con la grande maggioranza araba.

Cosa si sarebbe potuto fare perché ciò potesse avvenire? Se per chiunque esiste la possibilità di attraversare una vita intera disfacendosi del passato, raccontandolo nuovamente, perché non si sarebbe potuto provare a reinventare quel mondo che si è vissuto e che, una volta scomparso, si è pianto così a lungo?

Senza essere Said e persino dalle comode postazioni di osservazione di cui disponiamo noi europei, si ha la sensazione che l'immaginazione non sia forse più sufficiente per reinterpretare e ricomporre luoghi e animi troppo segnati da morte e dolore, dalla spinta dei sionisti, pervasa della memoria della Shoah, e da quella divergente dei palestinesi che vogliono restare nelle loro case o che vorrebbero tornarci. Ma se una pace è ancora possibile essa passa dalla forza mentale e morale di chi, tra bombe, sangue, schieramenti e discorsi contrapposti, riuscisse ad assumersi la responsabilità e a cogliere l'opportunità di immaginare un processo che, in pratica, è impossibile.