Il semestre di accesso a Medicina funge da filtro rigoroso: otto candidati su dieci non superano le prove previste. Le proteste degli studenti hanno alimentato la discussione pubblica, cui hanno contribuito anche le dichiarazioni della ministra Anna Maria Bernini, che li ha liquidati come “poveri comunisti”, e l’intervento di Roberto Burioni, il quale ha rimproverato i ragazzi sostenendo che dovrebbero ridurre le lamentele e dedicare più tempo allo studio. A suo giudizio, quei test sarebbero affrontabili già durante il liceo; un’istituzione che oggi, a suo parere, produrrebbe aspettative irrealistiche sia negli studenti sia nelle loro famiglie, tra percentuali di ammissione alla maturità altissime e votazioni finali distribuite con generosità in alcune aree del Paese.

Una simile impostazione lascia a dir poco perplessi. Invece di interrogarsi sulla logica stessa del semestre filtro — soluzione che presenta più di un nodo critico — l’attenzione si concentra sugli studenti, come se il problema risiedesse interamente nelle loro carenze individuali. Eppure, quando solo una minoranza supera le selezioni, è legittimo chiedersi se il meccanismo di valutazione o l’intero percorso formativo non presenti elementi di disfunzione. Ridurre la questione al semplice “studiare di più” appare un modo parziale di affrontare dinamiche che chiamano in causa familiari, insegnanti, docenti universitari, opinione pubblica e soprattutto le scelte politiche degli ultimi decenni.

A ben vedere, adottare una logica esclusivamente punitiva non rappresenterebbe una risposta efficace. Anche chi osserva da vicino il funzionamento del sistema universitario sa che una bocciatura generalizzata non risolve affatto le fragilità strutturali che si sono accumulate nel tempo. L’idea che gli adulti coinvolti nel processo educativo – a tutti i livelli – siano esenti da responsabilità non trova alcun riscontro. La scuola ha infatti attraversato trasformazioni profonde, spesso orientate verso un modello focalizzato su competenze trasversali, attività esperienziali, alternanza scuola-lavoro, dinamiche collaborative e lavori di gruppo, con docenti sempre più impegnati in compiti amministrativi e pratiche burocratiche. L’università, da parte sua, è stata interessata da numerose riforme che hanno contribuito a marginalizzare tanto la didattica quanto la ricerca.

Sorge dunque una domanda: queste trasformazioni sono state richieste dagli studenti? Le scelte che hanno plasmato l’attuale assetto formativo non sono certo riconducibili a loro. Per questo, è necessario che istituzioni, insegnanti, famiglie, chi progetta e governa l’istruzione riconoscano il proprio ruolo nella situazione attuale e ne assumano la responsabilità. È forse chiedere troppo?