L’ultimo custode di una sinistra intesa come gesto estetico oltre che etico, come dissenso più che governo. Lo si può rimproverare di molto, ma non di aver mai barato
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Fausto Bertinotti
«Comunista non è mai stato», scriveva Edmondo Berselli, con quella lucidità che sapeva andare dritta al cuore delle cose. Socialista, sì. Sindacalista, soprattutto. Ma Bertinotti del vero comunista «non ne ha i tratti intellettuali e nemmeno le fattezze fisiche», e infatti a nessuno è mai venuto in mente di paragonarlo a un austero funzionario sovietico con giacca lisa e baffoni da apparato. Fausto no. Fausto portava il cachemire come altri portano la bandiera: con convinzione, con fierezza, con stile. Fino al suicidio politico, per pura coerenza, o per totale incapacità di comprendere il presente. E diciamola tutta: probabilmente senza Bertinotti non ci sarebbe stato il trionfo di Re Silvio, la sua definitiva ascesa al cielo dell’immortalità politica.
Fausto Bertinotti si può considerare una figura anomala e, proprio per questo, irriducibile, il ritratto perfetto del politico italiano della seconda repubblica con radici profonde nella prima, che non aveva capito nulla del profondo cambiamento del paese, ormai prossimo all’avvento del caos politico, con il ritorno delle destre al potere. E così è stato, anche grazie all’inutile eleganza di Fausto.
L’ultimo custode di una sinistra intesa come gesto estetico oltre che etico, come dissenso più che governo. Lo si può rimproverare di molto, ma non di aver mai barato. Nemmeno quando, con passo leggero, fece crollare l’Ulivo, tra una citazione di Benjamin e una battuta su Warhol, continuando a restare se stesso, con sorprendente disinvoltura. Senza mai pentirsene.
Berselli lo capì prima di altri: Bertinotti non offriva soluzioni, ma «sapeva identificare con nettezza i punti di crisi». Era un osservatore partecipe, capace di cogliere la “sfasatura tra i modelli proposti e la realtà vera”, e di portare quella frizione dentro la politica, come una scintilla da far brillare. Arrivò alla presidenza della Camera, senza mai eguagliare la grandezza di Pietro Ingrao e l’eleganza e la severità della regina di Montecitorio, Nilde Iotti. Tutti in piedi!
Il suo momento più celebre, e il suo vero e definitivo peccato mortale, resta la caduta del governo Prodi nel 1998. Un colpo di teatro che consegnò il Paese a Silvio Berlusconi su un piatto d’argento. Fu un atto di rigore ideologico o un errore strategico da manuale? Dipende dai punti di vista. Di certo, non fu un atto casuale: fu pensato, discusso, ponderato, probabilmente anche ripiegato in quattro come una sciarpa Hermès.
Oggi torniamo a parlare di Bertinotti, in accoppiata nientemeno con uno dei più conosciuti banchieri italiani, morto nel 2015: Carlo D’Urso. Bertinotti e D’Urso, una stranissima coppia: il fondatore di Rifondazione comunista che entrava in politica dopo una vita passata nella Cgil e Carlo D’Urso, legato a Gianni Agnelli, amico di Henry Kissinger, con una storia di 25 anni nel cda di Lehman Brothers, che tutti ricorderanno quale simbolo della drammatica crisi globale del 2008. Due personalità così lontane, eppure così vicine, che finiscono per piacersi nell’affascinante Roma mondana e aristocratica ( e, diciamolo, nera).
Un cuore a cuore nelle lunghe serate dei salotti romani, fino a diventare amici inseparabili. Tanto diversi eppure tanto legati, fino al punto che nel testamento di D’Urso troviamo un generoso dono a Bertinotti, consistente in 500 mila euro e un quadro di Mao Tse Tung firmato da Andy Warhol. Mentre un altro quadro, sempre di Andy Warhol, D’Urso glielo aveva regalato qualche anno prima.
Ma perché oggi l’uomo che teorizzava l’anticapitalismo ha messo in vendita le due opere ricevute dal potente banchiere? «Ho bisogno di soldi», confessa il comunista. E subito parte l’ironia, quella antica cantilena tutta italiana sul “comunista ricco”. Ma anche in questo, Bertinotti è rimasto fedele a se stesso: non si è mai travestito da ciò che non era. Ha sempre preferito rappresentare «una posizione esplicitamente anticapitalista» ma senza passare per martire.
In fondo, diciamolo: il suo stile era la sua politica. Berselli lo scrisse con finezza: non era un “truce commissario” né un ideologo sepolto dalla storia, ma «l’esponente di un pensiero fondato sull’antagonismo sociale e politico» in un’epoca che cercava il consenso come moneta unica. Mentre la sinistra imparava a mediare, lui coltivava l’arte della distanza. Non voleva partecipare alla gestione del potere: voleva criticarne l’essenza.
E in un’Italia che ha scambiato la politica per una rissa da talk show, Fausto è rimasto l’unico capace di pronunciare parole difficili in tono garbato. Come un anarchico in abito sartoriale. Come un intellettuale, un ex comunista che non è mai stato comunista, ma solo perché il comunismo era troppo poco per lui.
Tanto poco che nel 2007, nel pieno di un’ormai avviata crisi del governo Prodi, si reca sul Monte Athos, repubblica teocratica greco-ortodossa, nella penisola Calcidica. Il presidente della Camera vi è rimasto per due giorni sulla Santa Montagna, che da oltre un millennio è sede di una repubblica monastica, formata da 20 monasteri ortodossi governati da un abate eletto a vita dai monaci. Qui le donne non possono entrare. Bertinotti, pronto a consegnare l’Italia alle destre, ovviamente sí!