Qual è il futuro del Partito democratico in Italia? Difficile dirsi. Se si guarda a quello che è accaduto in queste settimane, in questi mesi in Calabria, si capisce bene che la crisi è davvero profonda, che le varie componenti vive perfino in singoli gruppi, non sono assolutamente capaci di condividere un percorso senza dividersi, senza lacerarsi, finendo in contrapposizioni forti e addirittura minacce di denunce.
Il caso calabrese è probabilmente un modus operandi diffuso in molte più parti d'Italia, e non lascia ben vedere o immaginare il futuro di questo partito, fondamentale per la democrazia di un paese che ha necessità di schieramenti alternativi che si contendono il governo con programmi, progetti, gli uomini credibili.

Il Partito Democratico è nato nel 2007, grazie all'unione tra culture politiche storiche che si sono contrapposte per mezzo secolo. Mettere insieme gli ex democristiani, gli ex comunisti, i socialisti, i verdi, l'associazionismo, e tante altre idee politiche e culturali, non è stato facile, ma è stata una sfida che avrebbe dovuto creare una grande alleanza democratica e popolare.
Purtroppo molte cose non sono andate per il verso giusto, da Prodi, Veltroni, Marini, Franceschini, Rutelli che furono i primi ad animare la nuova alleanza, fino ad essere arrivati rapidamente ad un logoramento posto in essere dalle anime interne che mal digerirono il protagonismo di alcuni leader, che giocavano certamente una carta importante: quella della vocazione maggioritaria, di una rottura netta con il passato, di uno sguardo al futuro a cui il Partito democratico si doveva rivolgere. Tutto questo purtroppo non ha funzionato. Questa fusione non ha mai prodotto una vera sintesi ideologica e culturale. È stata più una somma aritmetica che una sintesi chimica.

Se al centro è successo tutto questo in periferia la situazione è apparsa subito irrecuperabile: gli ex comunisti sono rimasti ex comunisti, gli ex democristiani sono stati mal digeriti e sopportati. E la fusione è andata a farsi friggere.

Il Pd è rimasto un soggetto ambiguo, in cui convivono anime diverse, senza una visione comune. La “vocazione maggioritaria” di Veltroni è naufragata rapidamente. Da lì in poi si è navigato a vista, spesso con scelte tattiche e non strategiche.

Il Pd è rimasto ancorato a un modello novecentesco di partito: congressi, sezioni, correnti, capicorrente locali, tesseranto gonfiato, congressi infiniti e risse pubbliche, e insieme a questo l'arroganza di quanti stavano sulla scena da decenni e non hanno mai voluto fare spazio alle nuove generazioni. Un po' in tutta Italia è stato questo il quadro desolante di quello che avrebbe dovuto essere il più grande e ambizioso partito di centro sinistra d'Europa.

Ma oggi il mondo funziona in tutt’altro modo. La società è sempre più “liquida”, indifferente, lontanissima dalla politica. L’informazione corre sui social e le identità si costruiscono nella rete, non nelle sezioni. La politica si nutre di narrazioni forti, non di verbali congressuali. Il Berlusconismo ha svuotato la politica, ha cancellato i partiti, ha imposto un modello di partito persona, o partito azienda, che ha cancellato di colpo tutte le aspettative di un ritorno alla politica, intesa come condivisione di strategie e di modelli di gestione.

Il Pd è stato quasi subito percepito come vecchio, lento, autoreferenziale. Quando prova a modernizzarsi con segretari moderni e coraggiosi, viene subito frenato dalle liturgie interne. L’episodio dei congressi in Calabria ne è la prova plastica: invece di rinnovarsi, si ripropongono dinamiche feudali e personalistiche. Senza che si salvi nessuno dal disastro che si sta compiendo ormai da un decennio.

Ancora più grave è il fatto che il Pd si trovi sostanzialmente nel tentativo di creare una coalizione del governo. Quelle del passato sono fallite tutte, dall’Ulivo in giù nulla ha funzionato nella gestione del potere. I ricatti politici della sinistra estrema (vedi Rifondazione, Comunisti italiani ecc) hanno bloccato ogni possibile azione di governo. Eppure il programmi elettorali sembravano convincenti, alcune idee di governo sono state realizzate ed hanno portato ottimi frutti, alcuni ministri si sono distinti per qualità e competenza. Ma la tenuta della coalizione non c’è mai stata. Lo sanno bene Prodi, Letta, Gentiloni. Poi ha dato il ciclone Renzi: una grande opportunità storica di costruire una forza moderna in Italia, fallita soprattutto per gli accessi del giovane presidente del consiglio e segretario del partito, per il suo correre senza badare alle forze interne, per una sua idea di società che purtroppo non era condivisa dai più. Inoltre pagò la sua megalomania in quel referendum di riforma della costituzione che era parso immediatamente difficile da gestire e impossibile da far digerire alle forze politiche, le forze sociali ma soprattutto alla popolazione. Ma Renzi è rimasto l'unica vera forza che avrebbe potuto rivoluzionare per sempre la vita politica italiana. Ed è stato anche il peggiore nemico di se stesso.
Poi è arrivata l’alleanza con gli ex nemici del M5S: una coalizione di governo instabile e spesso solo strumentale, con Conte che gioca solo pro domo sua. A sinistra c’è poco di consistente. Il centro resta un campo minato, fatto di piccoli leader con grandi ego (Calenda, Renzi).

La destra, invece, ha una coalizione molto divisa che il potere rende compatta. Ideologicamente fragile, con una leadership forte e riconosciuta, costretta a subire gli agguati quotidiani di Salvini.

Il centrosinistra non può sperare di tornare a governare se i partiti che compongono l’alleanza rimangono litigiosi, senza visione comune, dove ognuno si sente generale di un esercito immaginario. E c’è un altro rischio, ancora più grave: nel Pd la segretaria Schlein non riesce più a rappresentare tutte le anime interne, dedicandosi quasi esclusivamente a garantire una visione di sinistra, ignorando del tutto il centro moderato, senza il quale il Pd non esiste più.

La crisi vera e profonda del Pd è quella del modello tradizionale di partito, che non riesce più a intercettare i bisogni delle persone. La partecipazione si sposta altrove: nei movimenti, nelle reti civiche, nel volontariato, nel dissenso digitale.

Ma il Pd non sa che strada prendere: ha mantenuto le vecchie forme senza rigenerare i contenuti, diventando così una scatola vuota, che vive di dinamiche interne e non di relazioni con la società.
E non solo: non sa più qual è il linguaggio giusto per dialogare con la società italiana in profonda crisi. Non parla più ai lavoratori, ai giovani, alle famiglie. E sembrano non avere più obiettivi: silenzio sugli stipendi da fame, silenzio sui grandi temi dallo sfruttamento del lavoro, sullo spopolamento di gran parte del sud, sulla fuga che ho ricominciata anche dal nord verso altri paesi europei. È una crisi di identità, ma anche una crisi di contenuti, di linguaggio, di strategie e di prospettive.

Il caso della Calabria è rivelatore: il partito è ormai gestito e rappresentato dai piccoli notabili locali, mentre i vecchi e potenti padroni del partito che fu, non fanno altro che continuare a distruggere ogni tentativo di rinnovamento vero.
Il Pd calabrese sta perdendo definitivamente il contatto con il territorio reale. Non c’è una classe dirigente autonoma, nuova, meritocratica. Ci sono colonnelli locali che gestiscono il potere con logiche novecentesche, che fanno scappare giovani, competenze, idee. E poi si lamentano dell’astensionismo. E infatti gran parte dei voti della sinistra, dei cattolici democratici, dell’area liberal democratica è finito nel grandissimo calderone dell’astensionismo.

In quasi vent’anni di vita, il Pd ha cambiato a dieci segretari, da Veltroni a Elena Ethel Schlein. Alcuni imposti, altri caduti nel fuoco amico. Nessuno è riuscito a durare abbastanza da ricostruire davvero un grande partito europeista, democratico, fortemente alternativo. La grande sfida della modernità rappresentata da Walter Veltroni è stata impallinata dopo i primi anni in cui non era mancato il successo in termini di consensi e soprattutto di contenuti politici veramente nuovi. Veltroni è stato impallinato dai veri re di quel Partito che stava nascendo e che così è stato ucciso nella culla.

La leadership è stata sempre vista come funzione di potere, non come funzione di visione e coesione.
Elly Schlein oggi appare troppa fredda, troppo “antica”, poco aperta alla modernità. Il “fuoco amico” è una delle patologie croniche del Pd. ED è sempre in azione!