Stamattina ho assistito a uno schiaffo “educativo”. Qualche ora dopo, durante una pausa caffè, lo stesso copione si è ripetuto davanti ai miei occhi. Due episodi nello stesso giorno, entrambi piccoli, entrambi apparentemente “normali”, ma sufficienti a ricordarmi quanto la comunicazione – nelle sue mille forme – continui a modellare il nostro modo di educare. Uno schiaffo non è mai solo un gesto: è un messaggio, un linguaggio, un codice culturale che dice molto più di quanto chi lo compie immagina.

In Calabria lo chiamano buffittuni, a Napoli pacchera, a Milano sberlùn. Parole che raccontano radici, abitudini e ironie locali, ma che descrivono tutte la stessa cosa: un gesto fisico che per generazioni è stato considerato parte naturale del crescere. Termini di un mondo che oggi non esiste più, ma che lascia tracce nel modo in cui gli adulti reagiscono quando un bambino “esagera”. La pedagogia e la psicologia moderna ci hanno insegnato che anche un singolo schiaffo è violenza. Persino alzare la mano, il gesto trattenuto all’ultimo secondo o la minaccia implicita producono nel bambino lo stesso effetto emotivo: insicurezza, paura e imprevedibilità.

Tutto è comunicazione: la voce che si alza, la postura che si irrigidisce, il volto che cambia, la mano che scatta. I bambini non imparano dalle spiegazioni teoriche, ma dai comportamenti concreti, dalle regole agite più che dalle parole. Ogni gesto adulto diventa un modello, ogni reazione un linguaggio, ogni momento di frustrazione gestito con forza un copione che il bambino, prima o poi, replicherà.

Un bambino che urla, spinge o imita un gesto violento non lo fa per cattiveria: sta traducendo in azione ciò che ha visto funzionare. La violenza non si tramanda solo emotivamente, ma
comunicativamente, attraverso gesti, toni, sguardi e abitudini. Allo stesso modo, un adulto che sceglie di non colpire comunica qualcosa di potente: un respiro profondo invece di un’esplosione, una pausa al posto dell’urlo, segnano confini chiari senza paura. Dicono che il conflitto non distrugge, che l’autorità non è sinonimo di violenza e che la relazione viene prima della reazione impulsiva.

Viviamo immersi in un mondo che parla in ogni forma: gesti, immagini, social, espressioni facciali, silenzi, scelte quotidiane. I bambini assorbono questo universo comunicativo con una sensibilità estrema. Per questo educare oggi significa prima di tutto comunicare bene, mostrando coerenza, credibilità e presenza.

Scrivo queste righe pensando soprattutto a chi oggi si sente sopraffatto. Genitori stanchi, stressati, pieni di responsabilità e sensi di colpa. Non sto giudicando: conosco bene lo stato in cui lo stress acceca, e so quanto certi modelli del passato, come quelli descritti nel libro Pedagogia nera, siano stati considerati “necessari” per formare il carattere. Disimpararli richiede tempo, pazienza e gentilezza verso sé stessi. Questo articolo vuole essere solo una riflessione amichevole, un piccolo spunto che già da stasera può aiutare a fare un respiro in più, contare fino a dieci, cogliere una sfumatura o scegliere un gesto diverso.

Ci sono libri, studi e strumenti che aiutano a comprendere meglio questi meccanismi. Per approfondire, mi sono fatto aiutare da un amico che vive per la pedagogia, uno di quelli che sa spiegarti la crescita emotiva e il linguaggio dei bambini con naturalezza. Abbiamo ripreso testi fondamentali come quelli di Faber e Mazlish, Vegetti Finzi, D’Ambrogio e Poletti e Versacecon “La corruzione del simbolo e il tradimento dell’educazione”.

Non offrono soluzioni immediate, ma cambiano prospettiva: insegnano che si può essere autorevoli senza essere aggressivi, fermi senza essere duri, presenti senza trasformare la relazione in conflitto.

Con il Natale alle porte, regalare uno di questi libri può essere un gesto semplice ma significativo. E se temete che qualcuno possa fraintendere il dono, basta una frase gentile che chiarisca l’intenzione: «L’ho scelto perché mi ha fatto riflettere e pensare a cose belle. Spero possa essere lo stesso anche per te».

Alla fine, tutto torna alla comunicazione. Uno schiaffo parla. Uno schiaffo non dato comunica ancora di più. E la differenza tra i due è il futuro che scegliamo di costruire ma soprattutto chi essere veramente dietro quattro mura e non solo sui social.

Buona Comunicazione a tutti.