Nel panorama spesso asfittico della comicità contemporanea, ingessata da una prudenza linguistica che scambia la cautela per profondità etica, Checco Zalone si staglia come un corpo estraneo, quasi un residuo perturbante di una tradizione comica che non chiede permesso e non domanda assoluzioni. La sua è una comicità che disturba, che urta, che volutamente sconfina; ed è proprio in questo sconfinamento - deliberato, metodico, talvolta brutale - che risiede la sua forza più autentica. Un elogio del politicamente scorretto, oggi, non è un gesto di semplice provocazione: è un atto critico, quasi un esercizio di resistenza culturale.

Zalone incarna una maschera antica, benché travestita da italiano medio postmoderno: il cafone, l’inetto morale, l’uomo comune che, lungi dall’essere un modello, diventa uno specchio deformante. Il suo personaggio non predica, non redime, non educa; semmai smaschera. E lo fa attraverso una comicità che si nutre di scarti, di stereotipi, di frasi improponibili, di pensieri indicibili. Ma è proprio questa apparente adesione al peggio - al luogo comune, al pregiudizio, alla rozzezza - a produrre un effetto paradossale: Zalone non legittima il politicamente scorretto, lo espone. Lo porta alla luce, lo esaspera, lo rende ridicolo fino a svuotarlo.

Nel suo universo narrativo il razzismo, il sessismo, l’egoismo piccolo-borghese non sono mai bandiere ideologiche, bensì materiali comici grezzi, sottoposti a un processo di corrosione ironica. Il riso che ne scaturisce non è mai innocuo, ma nemmeno consolatorio: è un riso che costringe lo spettatore a riconoscere, dietro l’eccesso caricaturale, una verità scomoda. Ridiamo, spesso, perché ci riconosciamo.

Il politicamente corretto, con la sua grammatica normativa e il suo lessico sterilizzato, tende a rimuovere il conflitto, a occultare le fratture del reale sotto una patina di buone intenzioni. Zalone compie l’operazione opposta: riporta il conflitto al centro, lo esaspera, lo sbatte in faccia allo spettatore. Il suo linguaggio è deliberatamente scorretto perché solo nella scorrettezza può emergere l’ipocrisia diffusa, quella zona grigia in cui convivono valori proclamati e pratiche quotidiane ben meno edificanti.

In questo senso, la sua comicità si iscrive in una tradizione nobile, che va da Aristofane alla commedia dell’arte, fino a certa satira novecentesca capace di usare il riso come strumento di disvelamento. Come ogni grande maschera comica, Zalone dice ciò che non si può dire, proprio perché lo dice male, fuori luogo, con una sgrammaticatura morale che è la sua cifra stilistica. Il politicamente scorretto diventa così un mezzo: una lente d’ingrandimento sulle contraddizioni dell’Italia contemporanea, sulle sue paure, sui suoi autoinganni.

Ed è in questa concezione che si configura la sua ultima creatura cinematografica: Buen camino.

Ecco perché l’indignazione rituale che spesso accompagna le sue uscite appare sterile, se non miope. Prendere Zalone alla lettera significa fraintendere radicalmente il dispositivo comico che egli mette in scena. Il suo personaggio non chiede di essere imitato, ma osservato; non propone un’etica, ma ne mette a nudo l’assenza. Il riso “scorretto” che suscita è un riso tragicamente consapevole, che nasce dalla frizione tra ciò che vorremmo essere e ciò che, molto più spesso, siamo.

In tempi in cui la comicità sembra dover chiedere il permesso di esistere, Checco Zalone rivendica il diritto all’eccesso, all’ambiguità, alla cattiva educazione come strumenti critici. E in questo gesto, apparentemente regressivo, si cela una lezione tutt’altro che banale: non c’è vera riflessione morale senza la possibilità dell’errore, dello scandalo, persino dell’offesa. Il politicamente scorretto, quando è consapevole e strutturato, non è il nemico dell’etica, ma il suo provocatorio alleato.