Quattro episodi firmati da Stefano Sollima e Leonardo Fasoli ricostruiscono la “pista sarda” del caso che ossessiona da decenni l’opinione pubblica. Un thriller lento, autoriale, più cerebrale che spettacolare
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© 2024 Netflix, Inc.
Arriva su Netflix Il Mostro, la serie di Stefano Sollima dedicata al caso del mostro di Firenze, e già si capisce che non assomiglia a nulla di quanto visto prima sul tema. Quattro episodi dal ritmo insolito, quasi ipnotico, che non cercano lo shock facile ma la risonanza profonda di una storia che continua a inquietare.
Dopo il passaggio al Festival di Venezia, dove ha diviso la critica tra entusiasmi e stroncature, la produzione approda in streaming con l’ambizione di riscrivere il linguaggio del true crime italiano.
Dimenticate i toni da docuserie o i serial americani pieni di colpi di scena: Il Mostro procede in penombra, alternando passato e presente, ricordi e interrogatori, nella cronaca di un Paese rurale, povero, superstizioso, intriso di violenza e sessualità repressa.
Le prime puntate sembrano quasi respingere lo spettatore, con tempi lenti, assenza di volti noti e un montaggio volutamente disorientante. Ma basta arrivare alla seconda metà per capire la logica di Sollima: ogni episodio ha un “mostro” diverso, ogni punto di vista cambia la storia, ogni certezza si sgretola.
La serie si concentra su ciò che i giornali chiamarono la pista sarda, quella dei primi indagati: Stefano e Giovanni Mele, Francesco e Salvatore Vinci. È il 1968, l’anno dell’omicidio di una coppia appartata, uccisa con una Beretta calibro 22. Solo molti anni dopo si scoprirà che la stessa arma verrà usata per tutti gli altri delitti. Da lì prende forma un’inchiesta labirintica che, tra errori, pregiudizi e depistaggi, diventa lo specchio deformato di un’Italia che non sa guardarsi dentro.
Sollima sceglie di raccontare tutto dal basso, attraverso la vita quotidiana di una comunità contadina dove il patriarcato è legge, le donne sono possesso, la violenza domestica è costume, e il sesso è insieme tabù e ossessione. Il regista evita la spettacolarizzazione e costruisce un tono visivo asciutto, quasi documentaristico, dove la paura cresce per accumulo, non per effetto. La macchina da presa indugia su volti e silenzi più che su coltellate e inseguimenti. È una scelta di regia coraggiosa, che restituisce un senso di verità ma allontana chi si aspetta un thriller tradizionale.
Il consulente storico Francesco Cappelletti ha garantito una fedeltà estrema alle carte giudiziarie e alle ricostruzioni originali. L’attenzione maniacale ai dettagli d’epoca – le divise, i dialoghi, la parlata toscana appena sporca d’accento sardo – immerge in un’Italia di provincia dove la superstizione si confonde con la legge. Non mancano passaggi volutamente ambigui, in cui lo spettatore si chiede se stia assistendo a un fatto o a una suggestione.
Ed è qui che la serie trova la sua cifra: lo spettatore è costretto a partecipare all’inchiesta, a dubitare, a smarrirsi. Sollima e Leonardo Fasoli, già autori di Gomorra e Suburra, non costruiscono un racconto di orrore puro ma una riflessione sulla percezione del male. Nessun detective infallibile, nessun colpevole certo: solo ipotesi, sospetti e fallimenti. La verità, suggerisce il regista, è un fantasma che cambia forma a seconda di chi lo guarda. «Il mostro potrebbe essere chiunque», dice Sollima, e non è solo un titolo: è il cuore dell’operazione.
La serie si chiude con Salvatore Vinci che sparisce nel nulla e i delitti che, per coincidenza o destino, cessano. Ma prima dei titoli di coda, l’inquadratura indugia su un nuovo volto, quello di Pietro Pacciani, appena accennato, quasi un presagio. È la porta aperta a una seconda stagione che potrebbe affrontare la fase più nota del caso, quella dei “compagni di merende” e dei processi infiniti che riempirono le cronache tra gli anni ’90 e i 2000.
Il Mostro arriva nei giorni in cui ricorre il quarantennale dell’ultimo delitto, accompagnato da libri, podcast e nuove teorie che alimentano il mito oscuro del killer. Sollima non sposa nessuna tesi, ma sceglie un linguaggio diverso: lento, simbolico, quasi spirituale. Invece di spiegare chi è il mostro, ci invita a chiederci perché abbiamo ancora bisogno di trovarne uno.
Il risultato, prevedibilmente, divide. Ai critici piacerà il rigore, la fotografia livida, la densità narrativa. Al pubblico, forse, meno: mancano le esplosioni, i colpi di scena, le confessioni gridate. Ma in fondo il senso della serie è proprio questo: non dare risposte, ma trasformare l’angoscia collettiva in una domanda aperta. Perché, come insinua Sollima, la vera eredità del mostro non è nei processi o nei delitti, ma nel sospetto che la sua ombra non abbia mai smesso di attraversare il nostro sguardo.