Tra recitazioni slegate, sceneggiatura spaesata e personaggi snaturati, la serie trionfa negli share ma naufraga nella qualità: un omaggio mancato al mito e un’occasione buttata via. Bene l’ambientazione in Calabria
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Il pubblico ha risposto compatto, quasi militarmente. La prima puntata del nuovo Sandokan su Rai 1 ha dominato la serata con 5.775.000 spettatori e il 33,9% di share, lasciando il Grande Fratello in un angolo a meditare sulla disfatta. Numeri d’oro, numeri che entusiasmano i direttori di rete e fanno gridare al successo. Peccato che, se si prova a guardare oltre la patina scintillante degli ascolti, quel trionfo si sgretoli come sabbia tra le dita. Perché questo Sandokan non è un ritorno, è una delusione. Una di quelle cocenti, che bruciano più del previsto.
Il progetto nasceva con aspettative enormi: riportare in tv l’immaginario che negli anni Settanta rese Kabir Bedi un semidio pop. Stavolta il testimone passa a Can Yaman, chiamato a incarnare il Tigre della Malesia in una versione 2.0 del mito salgariano. Eppure quel mondo di giungle, ideali, ferocia romantica e avventura pura non si vede neppure col binocolo. Le splendide spiagge calabresi, soprattutto quelle intorno a Lamezia, fanno il possibile per regalare credibilità agli scenari, ma non possono sopperire a ciò che manca davvero: la magia, la sostanza, la dignità del classico.
Chi conosce Salgari – e chiunque lo abbia letto almeno una volta – sa che la sua scrittura ha una struttura precisa, quasi sacra: ritmo, tensione, moralità epica. Se lo vuoi adattare, lo fai con la discrezione di chi entra in casa d’altri togliendosi le scarpe. Qui invece si è pensato che fosse legittimo riscriverlo a piacimento: personaggi trasformati, dinamiche rimescolate, ideologie infilate a forza per far contenti i palinsesti moderni. Lady Marianna viene reinventata come un manifesto sociologico, Yanez diventa un clown che fa l’occhiolino alla macchina da presa, e l’intero spirito salgariano evapora lasciandosi dietro solo una serie patinata, ma vuota.
Il problema non è Can Yaman in quanto tale. Nessuno gli nega bellezza né presenza mediatica. Ma interpretare Sandokan non è sfilare in uno spot o recitare con il papillon ancora caldo di stireria: è un ruolo che richiede tormento, profondità, magnetismo naturale. Qui invece arriva un protagonista palesemente ingessato, più impegnato a “fare Sandokan” che a esserlo. Il risultato è un eroe in miniatura: nessun carisma, nessuna tempesta interiore, nessuna intensità. Un cosplay costoso, niente di più.
Al suo fianco, Alessandro Preziosi offre un Yanez che sembra pensato per un talent show, non per un romanzo d’avventura. Smorfie, ammiccamenti, una recitazione gonfia che smonta l’eleganza del personaggio originale. Yanez non è una macchietta, non è un giullare di corte, non è il miglior amico che vuole strappare applausi: è il braccio destro più raffinato della letteratura popolare italiana. Qui invece è un falò di eccessi inspiegabili.
Poi c’è la sceneggiatura. Un labirinto confuso, dove gli autori sembrano aver tentato la quadratura del cerchio senza aver ben chiaro cosa fosse il cerchio. Trame pasticciate, innesti arbitrari, dialoghi talvolta imbarazzanti che suonano come la copia carbone di un kolossal internazionale mal riuscito. Chi scrive pare non aver colto che Sandokan è un mito generazionale, non una property da ritoccare a seconda dell’umore del marketing. Non si aggiorna il mito: lo si serve.
Neppure gli elementi simbolici sono stati risparmiati. La giungla del Borneo si trasforma in un bosco mediterraneo da brochure turistica, mentre la tigre – necessario cuore pulsante dell’immaginario salgariano – è un’animatronica da luna park che rischia di diventare virale sui social per i motivi sbagliati. A questo punto, paradossalmente, la tigre cartonata degli anni Settanta risulta più dignitosa: almeno aveva un’aura.
Tutto questo è ancora più sorprendente se si considera quanto Lux Vide abbia investito: budget, cast, regia, effetti. Un impianto produttivo enorme, che però si regge su un presupposto sbagliato: credere che l’estetica possa sostituire l’epica. Che qualche scena d’azione ben confezionata possa arginare la mancanza di cuore. È l’illusione tipica delle operazioni nate con buone intenzioni, ma rovinate da un eccesso di fiducia nella superficie.
La verità è che si è scelta la strada più facile: trasformare Sandokan in un prodotto “allineato” alle serie che funzionano oggi. Un po’ di dramma sentimentale, un po’ di virilità estetizzata, un tocco di introspezione finta. Come servire una pizza surgelata a Napoli dicendo che tanto “la gente non ci fa caso”. La gente ci fa caso, eccome.
Ripensare Sandokan avrebbe dovuto essere un atto d’amore verso Salgari, verso il suo pubblico e verso la tradizione televisiva italiana. Invece ci ritroviamo con un remake che, pur dominando l’Auditel, rinuncia alla propria identità. E noi, che eravamo pronti a tornare bambini, seduti sul divano con la speranza di ritrovare il brivido di un tempo, ci ritroviamo davanti a un giocattolo rotto. Lucido, costoso, impeccabile nelle forme. Ma irrimediabilmente rotto.

