Dietro la scorza dura, l’uomo. Dietro il “sergente di ferro”, un padre che si commuove pensando a tutto ciò che ha perso. Antonio Conte si racconta come non aveva mai fatto prima, spogliandosi della divisa da generale e indossando, per una volta, abiti più fragili, più veri. Lo fa nel libro Dare tutto, chiedere tutto (Mondadori), scritto con Mauro Berruto e con la collaborazione di Giulia Mancini. Un testo che somiglia a un’autobiografia non ufficiale, ma che riesce a fotografare con precisione chirurgica l’ossessione e l’umanità di uno degli allenatori più vincenti (e più discussi) del nostro calcio.

Il titolo, quasi un manifesto: dare tutto e pretendere tutto. Da sé e dagli altri. Ed è proprio in questa tensione costante che Conte si è costruito, come calciatore e come allenatore. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. E Conte non lo nasconde: «La rinuncia più grande della mia vita è stata non vedere tutte le fasi di crescita di mia figlia Vittoria», racconta con la voce incrinata. Parole che arrivano dritte al cuore. E che rompono il cliché del duro senza cedimenti.

Allenatore di cinque scudetti, reduce dal trionfo con il Napoli, Conte si lascia andare anche a una riflessione personale: «Sono rassegnato all’idea di essere solo. Un allenatore deve esserlo. Ha uno staff, si confronta, ascolta, ma alla fine ogni decisione viene presa da me, nel bene e nel male». È la solitudine del comando, ma anche la condanna dell’uomo che guida, che non può permettersi di vacillare, che deve decidere da solo, anche quando nessuno ti capisce.

Il libro ripercorre la sua carriera. Dai primi passi alla Juventus come calciatore — e quella stroncatura feroce della Gazzetta alla prima da titolare — alla scelta di non mollare, grazie anche a un Giovanni Trapattoni capace di motivarlo con due parole. Da lì nasce il metodo Conte: un mix letale di disciplina, fatica, pressione e ambizione. Che però non si applica solo ai suoi giocatori. «Sono il primo a chiedermi il massimo. Non posso pretendere nulla se non do tutto», scrive.

Conte non è tipo da compromessi. Lo si capisce quando racconta l’unica eccezione alla regola: al Chelsea provò ad allentare la presa, per rispetto a una cultura diversa. Ma finì male. «Da allora ho deciso di seguire solo la mia strada. A costo di essere impopolare». E infatti non fa nulla per risultare simpatico. Preferisce essere chiaro, diretto, spesso ruvido. Lo ammette anche quando racconta il rapporto con i presidenti: con De Laurentiis, presidente del Napoli, c’è stato bisogno di un chiarimento profondo prima di iniziare la seconda stagione insieme. «Ma ora parliamo la stessa lingua».

C’è spazio anche per i momenti familiari, per la foto di copertina con la figlia, per una giornata passata insieme tra trucco, parrucco e backstage. È lì che si intravede, forse, il vero Conte. Quello che per una volta non guida, non comanda, ma si lascia guidare. Un uomo che — pur se temprato dalla battaglia — rivela di avere, in fondo, un cuore pieno di rimpianti. E di amore non detto.

In un passaggio chiave del libro si legge: «Essere leader significa anche saper essere impopolari. Significa sopportare il peso delle scelte. E significa accettare di non piacere, quando serve». In quella frase c’è tutta la filosofia Conte. L’uomo che, anche in mezzo a uno stadio in delirio, sa di essere comunque solo.