C’è un rumore che ogni calabrese porta cucito nel sapore del primo freddo che non è affatto il sibilo del vento della Sila, ma il colpo secco di un bastone sulla pelle di un tamburo. O di un batacchio in un mortaio. È il segnale. Sta arrivando la “strina”.

Se oggi possiamo capire perché a Lago, nel cosentino, questo canto sia diventato una "strenna atipica", lo dobbiamo alla pazienza monumentale di Ottavio Cavalcanti, di cui sono diretto testimone oculare e auricolare. Ma per "sentirla" davvero, bisogna dimenticare per un attimo le pagine del suo imponente volume pubblicato da Rubbettino e immaginarsi lì, in un vicolo che profuma di fumo di legna e cenere, aspettando che il coro arrivi a scuotere la tua porta.

A Lago la “strina” non è una ninna nanna, ma è una scossa. Cavalcanti ci ha consegnato la prova che Natale, Capodanno, addirittura fino a Carnevale, può essere il momento più "politico" dell'anno. Mentre l'Italia dei salotti si scambiava auguri di zucchero, a Lago i contadini usavano il rito come uno scudo, e protetti dalla sacralità della festa, potevano finalmente dire in faccia al potente di turno ciò che pensavano di lui. L’ottava rima diventava una lama, la musica un tribunale che profumava di mosto.

Ma il vero cuore pulsante di questa "atipicità" laghitana o “vachitana”, come si dice da quelle parti, esplode nella celebre “Strina du Judeu” (la Strina del Giudeo). Qui il sacro si ribalta e si sporca di umanità cruda. In questo canto, il Giudeo — figura errante, simbolo dell' "altro" e del diverso — irrompe sulla scena non come un cattivo da catechismo, ma come un poverocristo affamato e beffardo.

"In nome de Diu, d'u Judeu e d'u pane": nel dialetto di Lago, la figura del Giudeo diventa il pretesto per una satira che non risparmia nessuno. È un canto di fame e di sberleffo, dove il rifiuto del dogma si mescola alla richiesta di un pezzo di salsiccia. È l'umanità che ride di se stessa per non piangere della propria miseria, elevando il "diverso" a voce della coscienza collettiva.

Questa forza ribelle di Lago è figlia di un’anima comune che, più o meno, brucia in tutta la Calabria. C’è un’umanità commovente nel vedere gruppi di uomini dalle mani spaccate dal lavoro e giovani con gli occhi carichi di nostalgia sfidare il gelo per un rito che è, prima di tutto, un atto di presenza.

Vige il rispetto del dolore in ogni paese, quando il gruppo arriva davanti a un portone dove il lutto è ancora fresco, la musica si spegne improvvisamente. Si passa oltre in punta di piedi. È una delicatezza arcaica: "Il tuo dolore è anche il nostro, stasera non oseremo disturbarlo". C'è un bicchiere della comunione, quando la porta finalmente si apre, l’aria gelida della strada si scontra con il calore del focolare. In quel vino offerto e in quel pane spezzato c'è la sconfitta della solitudine. La Strina trasforma lo sconosciuto in fratello.

Ottavio Cavalcanti non ha solo catalogato dei testi ma ha registrato il battito di un’umanità che non vuole essere dimenticata. La "Strenna atipica" e la sua “Strina du Judeu” ci insegnano che la tradizione è viva solo se sa ancora dare fastidio, se sa ancora far ridere delle nostre miserie.

Oggi, tra i vicoli di Lago, quando parte la prima strofa, non senti solo una canzone, ma senti il peso di una storia che non si arrende. La “Strina” è il nostro modo di dire al mondo che, nonostante i paesi si svuotino, finché ci sarà qualcuno che bussa a una porta e qualcuno che quella porta la apre, la Calabria rimarrà una terra dove l'uomo — con le sue rughe, i suoi peccati e la sua musica — conta ancora più del tempo.

*Documentarista