Quando l'informazione crolla, non resta il silenzio: restano il caos e una pioggia di opinioni istantanee travestite da fatti. La disinformazione costa zero e l’Italia ne sta pagando il conto
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Vi presentiamo la terza delle sei puntate sulla crisi della stampa in Italia. Un declino che ha radici antiche e ragioni complesse. LaC proverà a raccontarvelo. Qui la prima e la seconda puntata della serie.
C’è una verità che nessuno ama pronunciare: dove i giornali arretrano, la disinformazione avanza senza trovare ostacoli. Il vuoto lasciato dalla stampa non rimane mai vuoto. Lo riempie qualcos’altro, e quel qualcos’altro, quasi sempre è veleno.
Oggi basta aprire un social qualsiasi per vedere ciò che ha sostituito il vecchio giornale: un flusso ininterrotto di opinioni travestite da fatti, verità “fai da te”, indignazioni sintetiche prodotte a velocità industriale.
La vittoria delle bugie: una conquista facile
Le fake news non hanno dovuto combattere. Hanno trovato un campo libero, un Paese vulnerabile, con scarsa alfabetizzazione digitale e fiducia nelle istituzioni ridotta al minimo.
La crisi della stampa ha tolto dal territorio migliaia di cronisti, inviati, analisti: posti lasciati vuoti, e subito occupati da pagine anonime, canali Telegram, gruppi WhatsApp che fabbricano realtà parallele.
Dove prima c’erano inchieste, oggi ci sono complotti. Dove prima c’erano fonti, oggi bastano screenshot anonimi. Dove prima c’erano giornalisti, oggi ci sono “opinionisti istantanei”.
È un Paese che non discute più su ciò che è vero, ma su ciò che sembra vero.
L’ignoranza organizzata: una nuova forza politica
Il danno più profondo è questo: l’ignoranza non è più una condizione. È un’identità. Una comunità. Un movimento. Si alimenta da sola, si auto-radicalizza, si diffonde molto più in fretta dell’informazione professionale.
E il motivo è semplice: la disinformazione costa zero, richiede zero competenze, non ha l’obbligo di essere verificata. È perfetta per un ecosistema che vive di velocità e non di qualità.
Non è un caso che le campagne elettorali moderne si vincano sulle percezioni, non
sui dati. Non è un caso che la rabbia digitale sia diventata la forma dominante del dibattito pubblico. Non è un caso che le fake news si diffondano dieci volte più velocemente delle notizie vere.
Chi comanda oggi non è chi sa spiegare di più, ma chi sa semplificare di più.
Il che significa: chi sa mentire meglio.
Un Paese più fragile, più manipolabile, più solo
Il prezzo dell’ignoranza non è astratto. Lo paghiamo ogni giorno: nelle urne, nelle piazze, nelle conversazioni quotidiane. È il prezzo di un Paese che ha smesso di pretendere fatti e ha iniziato ad accontentarsi di impressioni.
L’Italia si ritrova così prigioniera di un dibattito pubblico che vive di slogan, non
di contenuti.
Un Paese dove “ho letto da qualche parte” vale più di un’inchiesta. Dove uno screenshot anonimo pesa più di un documento ufficiale. Dove chi studia è “di parte”, ma chi improvvisa è considerato “libero”.
È l’involuzione perfetta: meno giornalisti, più falsi profeti. Non esistono soluzioni rapide. Non bastano fact-checker, leggi contro le fake news o task force digitali.
La disinformazione non si combatte con una toppa, ma con una struttura: una stampa viva, presente, competente, rispettata.
Senza giornalismo vero, ogni società collassa nel caos emotivo. Senza redazioni forti, la verità diventa un’opinione come le altre. Senza cronisti nei territori, il potere non ha più chi gli chiede conto.
Il prezzo dell’ignoranza è già altissimo. E se l’Italia non ricostruirà il suo sistema informativo, presto diventerà insostenibile. Perché la disinformazione non uccide chi la crea. Uccide chi ci crede. Cioè tutti noi.

