Un tempo le vacanze estive erano fatte di lunghe permanenze al mare o in montagna, di giornate scandite dalla noia creativa e da piccole abitudini condivise. Oggi, tra rincari, caldo torrido e fughe mordi e fuggi, resta il ricordo di una stagione che sapeva regalare tempo vero
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È appena passato Ferragosto, e già le strade che portano al mare si svuotano. I paesini di collina e di montagna tornano a fare i conti con le poche centinaia di abitanti. I cartelli dei ristoranti, fino a pochi giorni fa pieni di prenotazioni, tornano a lampeggiare con la scritta “posto libero”. Sui lungomare, i venditori di ciambelle calde passano con passo annoiato, senza più la calca di mani pronte ad afferrarne una con voracità. Le spiagge, che per settimane erano un mosaico fitto di ombrelloni colorati, ora mostrano ampi spazi di sabbia nuda. E le foto da cartolina sembrano quasi un eco lontano.
L’estate italiana sembra oggi ridursi a un lampo: poche settimane, a volte pochi giorni. Non è più quella lunga, interminabile stagione che per decenni ha segnato l’immaginario di intere generazioni.
Chi è nato prima degli anni Ottanta ricorda bene la parola “villeggiatura”. Io che sono figlio del nuovo millennio non l'ho vissuta, ma ne ho sentito ampiamente parlare nelle memorie di nonni e genitori. La villeggiatura non era solo una vacanza: era un rito. Una sorta di trasloco stagionale, che cominciava a giugno e terminava a settembre. Intere famiglie affittavano appartamenti al mare per un mese intero, spesso sempre nella stessa località, così da ritrovare ogni anno gli stessi vicini, gli stessi amici di ombrellone, gli stessi ristoratori. C’era chi partiva in macchina, stracarica di roba: materassi arrotolati sul portapacchi, borse frigo con salami e conserve, bambole, secchielli e giochi dei bambini infilati nei sedili posteriori insieme ai fanciulli.
Le pensioni a conduzione familiare pullulavano di villeggianti: stanze semplici, menù fissi con insalata di riso, insalata di mare, e lunghe serate in veranda a chiacchierare con sconosciuti che diventavano compagni di vacanza. Nei campeggi si montavano tende che restavano piantate per mesi, i bambini correvano scalzi tra i pini, e il tempo scorreva lento, scandito solo dal ritmo delle maree e dal richiamo delle cicale.
I pomeriggi erano fatti di pennichelle obbligate, i romanzi d’appendice si leggevano fino a consumarne le copertine, e la noia – sì, quella noia oggi così temuta – diventava spazio fertile per l’immaginazione. Nei momenti di noia si pensava, si immaginava, si inventavano cose da fare al rientro, quando tutti sarebbero tornati ricaricati dalla vacanza e pieni di energia per le attività lavorative del nuovo anno.
Oggi, invece, la vacanza ha perso quella lentezza. Dieci giorni sono un traguardo, una settimana sembra già un lusso. La logica del “mordi e fuggi” domina: due notti in una capitale europea, un weekend al mare, qualche giorno in montagna per “staccare”, una domenica per pranzare in un lido. Non si va più in un luogo per abitarlo, ma per attraversarlo. Non si cerca più l’abitudine – la stessa spiaggia, lo stesso bar, la stessa routine lenta. Si cerca la novità, l’esperienza unica, l’angolo “instagrammabile”.
La valigia non contiene più lenzuola da campeggio o bottiglie di vino fatte in casa, ma powerbank, costumi firmati, accessori da immortalare. E soprattutto lo smartphone, vero protagonista di ogni viaggio: non c’è tramonto che non venga fotografato, non c’è piatto che non sia condiviso, non c’è giornata che non finisca negli archivi digitali dei social network. E questo non è un punto a sfavore, il tutto dipende dai punti di vista.
Le ragioni di questo mutamento sono tante. I prezzi innanzitutto: un tempo una famiglia con reddito medio riusciva a permettersi tre settimane al mare, oggi spesso fatica a pagare una sola settimana. Gli affitti stagionali sono diventati proibitivi, i ristoranti hanno listini da ristorante stellato, persino un ombrellone con due sdraio può costare come una rata di mutuo.
Poi c’è il caldo torrido: le estati italiane si sono fatte più dure, più asfissianti. Restare a lungo in località sovraffollate significa esporsi a temperature insostenibili, e così molti preferiscono fughe brevi, o addirittura posticipare le ferie a settembre. Un tempo, chi non amava il caldo, nella stagione estiva trovava riparo in montagna, oppure nei piccoli borghi in cui vivevano i propri genitori. Oggi in collina e persino in montagna le temperature risultano essere esagerate.
Infine, e forse soprattutto, è cambiata la nostra psicologia. Non sappiamo più stare fermi. L’ozio, che un tempo era un valore, oggi è percepito come perdita di tempo. Anche in vacanza vogliamo fare, programmare, spostarci. L’agenda non si chiude mai del tutto: c’è sempre una mail a cui rispondere, una chat di lavoro che lampeggia, un appuntamento rimandato. La vacanza diventa un’estensione del ritmo quotidiano, solo in scenari diversi.
Il villeggiante di un tempo tornava a casa con poche fotografie, ma con molti racconti. Oggi è il contrario: centinaia di immagini, ma il rischio di aver vissuto poco davvero.
C’era una volta l’estate delle partite a carte sotto l’ombrellone, dei tornei di bocce sul bagnasciuga, dei cinema all’aperto con le sedie pieghevoli e il fruscio delle zanzare. Oggi ci sono i resort all-inclusive, le crociere mordi e fuggi, i pacchetti vacanza che ti portano in dieci città in cinque giorni. Tutto più ricco, più scintillante, ma forse anche più superficiale.
La nostalgia dopo Ferragosto
Ora che Ferragosto è passato, resta il rammarico, per alcuni, di non aver vissuto a pieno la bella stagione. L'estate inizia a declinare, resta il vuoto delle spiagge deserte, il silenzio dei borghi, l’eco di una stagione che si è consumata in fretta. È in questo silenzio che riaffiora la nostalgia: non tanto di un tempo migliore, ma di un tempo più lungo. Lungo non per la durata, ma per l’intensità. Un tempo in cui la vacanza era pausa vera, respiro ampio, e non corsa affannata.
Forse non si tratta di chiedersi perché le vacanze siano più brevi, ma se siamo ancora capaci di viverle. Di fermarci. Di annoiarci, persino. Perché il riposo non nasce dal movimento, ma dalla sosta.
Il futuro della vacanza
Forse il futuro del turismo non sarà nella moltiplicazione delle mete o nella velocità degli spostamenti, ma in una riscoperta della lentezza. Non più correre da un luogo all’altro, ma tornare a fermarsi in uno stesso posto, a lasciarsi vivere da un luogo invece che consumarlo.
In fondo, le vacanze di ieri erano lunghe non solo perché avevano più giorni, ma perché in ogni giorno c’era più tempo. Il tempo di leggere un libro fino all’ultima pagina, il tempo di imparare un gioco nuovo, il tempo di fare amicizie che duravano un’estate intera.
È questo, forse, che ci manca di più oggi, quando ci accorgiamo che l’estate è già quasi finita e ci sorprendiamo a desiderare non tanto un’altra meta, quanto un po’ di quel tempo perduto.