La Chiesa sprona il Governo, denunciando la “rassegnazione” che traspare dal Piano strategico nazionale nei confronti dei piccoli comuni marginali
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«No al suicidio assistito delle aree interne». Con queste parole, cardinali e vescovi hanno lanciato un appello al Governo e al Parlamento, denunciando la “rassegnazione” che traspare dal Piano Strategico Nazionale nei confronti dei piccoli comuni marginali. Un richiamo forte, che mette a nudo una verità che da tempo scivola nel silenzio: i borghi, i paesi dell’entroterra, le comunità che custodiscono la memoria e l’identità dell’Italia, stanno morendo.
Lo spopolamento non è più un rischio, è una realtà. Le aree interne, soprattutto quelle montane e del Mezzogiorno (e della Calabria, in particolare, che rischia davvero un drammatico tracollo della popolazione residente), si svuotano anno dopo anno.
I numeri parlano da soli: 3.900 comuni coinvolti, 14 milioni di abitanti interessati, 358 paesi che nel 2024 non hanno registrato neppure una nascita. Secondo le stime, entro il 2043 l’82% dei comuni interni perderà popolazione, e il 93% di essi si trova al Sud. Una desertificazione demografica che trascina con sé servizi, economia, relazioni sociali, identità.
La Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), nata nel 2013 per garantire accesso a scuola, sanità e trasporti e per stimolare progetti di sviluppo locale, si è rivelata in gran parte un guscio vuoto. Troppi i ritardi, eccessiva la burocrazia, scarsi gli effetti concreti. «È un’eutanasia programmata» hanno denunciato sindaci, docenti e urbanisti in una mobilitazione dello scorso luglio, sottolineando che parlare di “irreversibilità” dello spopolamento equivale ad alzare bandiera bianca.
Anche Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, ha avvertito: i 2 miliardi destinati alle comunità energetiche rinnovabili rischiano di restare lettera morta se non si semplificano procedure e iter autorizzativi. Una montagna di risorse, ma che non scalfisce il muro dell’abbandono istituzionale.
Il Pnrr, con il programma “Borghi” e circa un miliardo di euro distribuito tra 420 milioni per progetti bandiera e 580 milioni per bandi regionali, ha acceso qualche speranza. Ma si tratta di interventi circoscritti, incapaci di incidere su un fenomeno così vasto.
Intanto, chi resta nei paesi racconta la fatica quotidiana: scuole chiuse, ospedali lontani, uffici postali soppressi, collegamenti inesistenti. «La mancanza di infrastrutture e servizi è quello che sta spopolando le aree interne» scrive un cittadino in un forum dedicato. Un altro aggiunge: «Per servizi essenziali si intendono scuole, ospedali, poste, supermercati. Qui non c’è più nulla».
Eppure, soluzioni concrete esistono: la telemedicina per superare l’isolamento sanitario, il co-housing come modello sociale innovativo, la digitalizzazione per collegare territori remoti, servizi integrati per le famiglie. Ma se restano sulla carta, se non diventano un progetto vero, i piccoli centri continueranno a morire.
La voce della Chiesa si unisce a quella di sindaci, studiosi e cittadini per lanciare un allarme che riguarda tutti: lasciare morire i piccoli comuni significa cancellare secoli di storia, di cultura, di tradizioni che costituiscono l’ossatura stessa dell’Italia. Non è solo una questione demografica o economica, è la perdita di un’identità nazionale.
Il tempo, però, sta per scadere. Ogni anno che passa, intere comunità scompaiono. Salvare i borghi non è un atto di nostalgia, è una necessità vitale per il futuro del Paese. Se non si inverte la rotta, rischiamo di ritrovarci con un’Italia senza radici, più fragile, più povera, più sola.