Da quattro giorni a questa parte, a Tel Aviv le persone hanno imparato a fare tutto in fretta. Non per moda, non per nevrosi: per istinto. Ogni cosa – un caffè, una telefonata, un bagno al mare – può essere interrotta da una sirena. E quando succede, il tempo si spezza. Non c’è discussione, né esitazione. Si corre.

Anche oggi, la sveglia non è suonata da sola. Alle 6:42 del mattino, il cielo ha urlato. L’allarme è durato poco, una manciata di secondi. Poi, il silenzio. La città si è chiusa nei rifugi. Chi è in casa ha una “stanza sicura” – un vano corazzato, obbligatorio per legge. Chi non ce l’ha, corre nei bunker pubblici, nei parcheggi sotterranei, nei corridoi degli hotel, dove i muri sono più spessi.

Una signora con la spesa appena fatta tiene il sacchetto stretto al petto. Non ha fatto in tempo a metterlo via. Un ragazzo con la t-shirt bagnata spinge il suo monopattino nel seminterrato. Due bambine giocano con una torcia accesa, disegnando cerchi di luce sul pavimento. Il padre le osserva in silenzio. Poi arriva il messaggio dell’Idf: è tutto finito. Si può tornare su.

Tel Aviv sembra essersi già abituata a queste scene. Da giorni vive sotto la minaccia costante dei missili lanciati dall’Iran e dai suoi alleati nella regione. L’aria è tesa, ma anche decisa a non farsi sopraffare dalla paura. La guerra – perché di questo si tratta, anche se spesso non ha un nome preciso – non cancella la vita. La deforma, la sospende, la condiziona. Ma non la spegne.

Dopo l’allarme, si esce. I negozi riaprono. I bar risistemano i tavolini. Al mercato del Carmel, l’odore delle spezie si mescola a quello delle sirene di sicurezza. Un venditore di melograni urla il prezzo a una coppia di turisti, come se nulla fosse. I tur

isti contrattano. Poi, appena un ronzio sospetto passa sopra le teste, il silenzio torna per un attimo. Gli occhi si alzano. Nulla. Solo un gabbiano. Si riprende.

Anche i bambini, qui, crescono imparando la differenza tra un’esercitazione e un allarme vero. Hanno lo zainetto pronto per scappare e conoscono il percorso più breve per il rifugio. Alcuni lo vivono come un gioco. Altri no. Alcuni piangono. Altri, come Noam, dieci anni, raccontano con precisione scientifica il suono di un Iron Dome che intercetta un missile: «Prima senti un fischio, poi un tonfo. Se è forte, ha colpito vicino».

Al parco Meir, al centro della città, ci sono famiglie sedute sull’erba. Qualcuno fa yoga. I ragazzi con la kefiah al collo parlano a bassa voce. Un uomo in divisa mangia un panino e tiene la radio accesa. È un ufficiale di riserva richiamato due giorni fa. Dorme da un amico. Dice che non vuole lasciare Tel Aviv ora. «È casa mia. E casa mia non la si lascia sotto le bombe».

Le scuole, salvo casi particolari, restano aperte. Anche i musei, i cinema, le biblioteche. Ma in ogni edificio c’è un piano d’emergenza. L’orario delle lezioni può essere interrotto in ogni momento. Eppure, genitori e docenti hanno scelto – finché possibile – di non fermare tutto. Perché fermarsi significherebbe arrendersi. E qui, arrendersi è una parola che non si pronuncia mai.

Sul lungomare, poco prima del tramonto, qualcuno corre con le cuffiette nelle orecchie. Una coppia si bacia davanti al mare, che oggi è più grigio del solito. I cani scodinzolano tra le onde, ignari del terrore che vola sopra le teste. Un drone – forse israeliano, forse no – taglia il cielo lasciando una scia quasi impercettibile.

Nella zona di Florentin, la parte più giovane e alternativa della città, i bar servono birre come ogni sera. Ma l’ingresso dei locali ha una porta blindata. E in ogni angolo c’è un cartello che indica la via più rapida per raggiungere il rifugio più vicino.

C’è chi vive tutto questo con rabbia. Chi con fatalismo. Chi con un misto di orgoglio e disperazione. «Non siamo abituati. Nessuno può abituarsi a sentirsi in pericolo ogni giorno – dice Ronit, 36 anni, insegnante – ma siamo allenati. A convivere con l’incertezza, con il panico, con la stanchezza emotiva. È la nostra normalità».

E intanto, la vita scorre. A tratti. A singhiozzi. Tra una sirena e l’altra, Tel Aviv resiste. Si ostina. Si reinventa. Ogni mattina si sveglia con la paura, ma anche con l’idea che domani – forse – si potrà respirare di nuovo, senza dover correre sotto terra. Perché, nonostante tutto, in questa città sotto i missili, nessuno ha ancora smesso di voler vivere.