In tre sono finiti in carcere, uno ai domiciliari. Secondo gli inquirenti esercitavano «pressioni sugli operatori economici» sottoponendoli a «sistematiche azioni vessatorie»
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Un «pervasivo controllo del territorio» esercitato attraverso «pressioni sugli operatori economici» che «subivano sistematiche azioni vessatorie, volte all’imposizione di prodotti alimentari e al pagamento di proventi estorsivi». Questo il quadro ricostruito dalle indagini che hanno portato, questa mattina, all’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di quattro persone ritenute appartenenti alla cosca Labate, articolazione ‘ndranghetista egemone nella zona del quartiere Gebbione di Reggio Calabria.
Si tratta di Michele Labate (classe ‘56), Francesco Salvatore Labate (classe ‘66), Paolo Labate (classe ‘85), destinatari della misura della custodia in carcere, e Antonino Laganà (classe ‘71) finito invece ai domiciliari. Tutti sono indagati, a vario titolo, per associazione di tipo mafioso.
A eseguire l’ordinanza gli uomini del Ros – con il supporto in fase esecutiva del Comando Provinciale Carabinieri di Reggio Calabria e dello Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori “Calabria” – coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria diretta dal procuratore della Repubblica f.f. Giuseppe Lombardo.
I provvedimenti scaturiscono da un’articolata indagine del Ros avviata nel 2019, che ha consentito di documentare gli assetti della cosca, riattualizzandoli, nel periodo successivo gli arresti eseguiti nella precedente indagine “Heliantus”, rispetto alla quale questo procedimento si è posto quale logica prosecuzione, mettendo in luce come il sodalizio abbia mantenuto inalterata la peculiare pervasività sul tessuto economico della zona di influenza e consentendo di individuarne – in termini di gravità indiziaria – il vertice nei fratelli Michele e Francesco Salvatore Labate, al timone dell’associazione in virtù dello stato di restrizione dei fratelli maggiori Antonino e Pietro cl.51, ritenuto quest’ultimo da sempre capo carismatico del sodalizio.
Gli inquirenti hanno fatto luce sul controllo pervasivo del territorio esercitato da Michele Labate il quale, per ridurre i rischi di esposizione alle indagini delle forze di polizia, aveva organizzato una ben congegnata rete di comunicazioni attraverso incontri riservati in luoghi ritenuti sicuri, utilizzando fidati fiancheggiatori per “schermare” gli appuntamenti.
Paolo Labate, anche per conto del padre Michele durante il periodo di carcerazione, manteneva rapporti con gli imprenditori legati alla cosca da occulte sinergie, agevolando e coordinando l’infiltrazione in lucrosi settori di espansione economica tra cui quello della grande distribuzione alimentare.
Secondo quanto emerso dalle indagini, i fratelli Michele e Francesco Salvatore disponevano di fidati collaboratori, tra cui Antonino Laganà, deputato a veicolare messaggi e ambasciate, riscuotere proventi estorsivi, eseguire azioni ritorsive e mantenere rapporti con i rappresentanti della comunità Rom al fine di consentire alla cosca il controllo sulla microcriminalità operante sul territorio.