Blu notte

Così Umberto Bellocco gestiva il clan dal carcere. Ed era ammirato: «Questa è ‘ndrangheta seria»

Dalla casa circondariale di Lanciano il presunto boss era operativo h24 grazie a microtelefoni. Un sistema complesso che vedeva tra i suoi ingranaggi anche piccoli criminali di provincia ansiosi di fare bella figura con il detenuto

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di Vincenzo Imperitura
13 dicembre 2022
15:03

Reggeva le redini della cosca in smart working, il giovane presunto boss Umberto Bellocco, coinvolto nella maxi inchiesta Blu notte che ha portato all'arresto di 63 persone. Detenuto nella sezione “alta sicurezza” del carcere di Lanciano, era comunque operativo h24 grazie a microtelefoni «dei cinesi» che gli consentivano di impartire direttive al cognato Francesco Benito Pelaia, a sua volta detenuto in regime di domiciliari nella sua casa di Rosarno.

Un sistema andato avanti a lungo e venuto fuori grazie alla collaborazione tra le distrettuali antimafia di Brescia e di Reggio Calabria che hanno ricostruito il sistema con cui il presunto reggente della cosca Bellocco si riforniva di apparecchi telefonici, sim sicure e falsi profili social con cui interagire su internet. Un sistema complesso che vedeva tra i suoi ingranaggi, piccoli criminali di provincia e underdogs di altri clan mafiosi, ansiosi di fare bella figura con quel detenuto così rispettato all’interno del carcere abruzzese.


Mutuo soccorso tra clan

Ad occuparsi in prima persona di rifornire Bellocco dei telefoni cellulari è Ramy Serour, arrestato nel 2018 come partecipe del clan Spada di Ostia. È lui, dicono gli inquirenti, uno dei canali attraverso cui Bellocco riceve in carcere quanto gli serve. Serour è affascinato da Bellocco; ne riconosce lo spessore criminale e non vede l’ora di farsi trovare pronto alle richieste del nuovo amico. «La verità fra’ – racconta al cugino chiacchierando tranquillamente al telefono dal braccio dell’alta sicurezza del carcere – oggi sono stato invitato ad un tavolo, eravamo 17 persone, tutti… la ‘ndrangheta. Queste sono persone serie».

L’occasione per il criminale romano di mettersi in mostra con il presunto boss calabrese arriva nell’ottobre del 2019. «Senti – dice al telefono al cugino non detenuto – a Umbè sai che gli serviva? Dice dal cinese, ci sono quei telefoni, quelli piccoli che già abbiamo!!! Dal cinese questi piccoli che usiamo noi. Li puoi prendere un paio, però con i tasti di gomma fra’, perché li usa per messaggi lui, perché i tasti di plastica si rompono subito. Prendine due e buttali insieme e daglieli».

Pronta consegna carcere

Nella complessa filiera criminale che si occupa di rifornire il penitenziario di telefonini “discreti” e poco rumorosi, ci sono diversi ingranaggi. Ci sono la moglie del detenuto affiliato agli Spada, e quella del compagno di cella dello stesso Serour. Sarà la seconda a consegnare ad una terza donna – “la barese” – i due apparati telefonici appena acquistati.

La donna, che riceve la busta immediatamente dopo la fine dei colloqui con i detenuti, è la moglie di un altro carcerato, Matteo Pettinicchio, a sua volta legato a Michele Tiberio, anche lui detenuto, in regime di semi libertà nel penitenziario di Lanciano. È lui, dicono le indagini, a portare dentro i telefoni approfittando della consuetudine alle mancate perquisizioni al suo ritorno in cella. Tra la richiesta formale di acquisto e la consegna direttamente del braccio dell’alta sicurezza sono passati poco più di sette giorni: più puntuale di Amazon.

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