Sedici lunghi anni. È il tempo trascorso da quando Rina Pennetti sparisce nel nulla senza lasciare traccia. Dov’è la donna bionda di 33 anni (oggi ne avrebbe 49), madre di due figli e figlia di un noto imprenditore di Spezzano Sila? Una domanda che dal 6 ottobre del 2009 continua a soffiare nel vento. E ancora una risposta non c’è.

Le ultime notizie che si hanno di lei riguardano la mattina della sua sparizione. Quel giorno, Rina esce di casa in compagnia di un amico che a un certo punto entra in un negozio di vernici, a Rende, e lascia lei in attesa nell’abitacolo dell’auto. Al suo ritorno, pochi minuti dopo, la passeggera non c’è più. In seguito, una parrucchiera della zona afferma di averla vista affacciarsi all’ingresso del suo salone per biascicare parole senza senso e andare via. Rina, infatti, è sotto cura di antidepressivi, retaggio della morte della mamma e di un lungo periodo trascorso in clinica per disintossicarsi dalla droga. C’entra qualcosa con il suo allontanamento? L’unica certezza, in quel momento, è che la sua borsetta viene trovata sulla strada, a un centinaio di metri dall’auto, con il cellulare e i documenti sparsi sull’asfalto.

Le ricerche partono con poca convinzione. Non era la prima volta, infatti, che Rina si rendeva “uccel di bosco”. Improvvise sparizioni, seguite da altrettanto rapide riapparizioni, avevano scandito in passato altre fasi turbolente della sua vita. È un precedente che orienta gli investigatori verso la pista dell’allontanamento volontario. E a convincerli del tutto, ci pensa poi un evento che si verifica alcune settimane dopo. Salta fuori una testimone, una donna che conosce Rina perché in passato ha frequentato casa Pennetti per assistere la mamma inferma. Riferisce di aver parlato con lei a Paola, durante una fiera e che era in compagnia di un misterioso amico. Per la Procura è la prova decisiva: la donna sta bene e dietro la sua scomparsa non si cela alcun mistero.

Stavolta, però, non è come le altre. Passano i mesi e Rina non è ancora tornata a casa. Non solo, non ha dato alcuna notizia di sé. Non avrebbe mai piantato in asso così i suoi figli e neanche il suo papà al quale era morbosamente legata, quindi deve esserle successo qualcosa. I familiari ne sono certi e si rivolgono al criminologo Francesco Bruno che, dopo aver studiato il caso, arriva a ipotizzare «un rapimento a scopo estorsivo o per vicende legate alla droga». L’inchiesta, in precedenza archiviata, riparte proprio sulla scorta del suo dossier.

Le ricerche ripartono a 360 gradi, stavolta con più determinazione. Alcuni numeri estratti dalla rubrica del telefonino, suggeriscono di puntare in direzione della Svizzera. È lì peraltro che la donna è stata ricoverata per liberarsi dai fantasmi della droga. Si mobilitano anche le autorità elvetiche, ma senza risultato. Un’altra traccia porta in Africa. La sua sim card registra una telefonata in entrata dalla Somalia quasi coeva alla sparizione. I familiari compongono quel numero, ma a rispondere è un uomo che nega di aver fatto quella chiamata. Anche quella pista e un’altra che in seguito orienta le ricerche negli Emirati Arabi, finiscono in un vicolo cieco.

Passano due anni e le speranze di ritrovarla sana e salva si accendono all’improvviso. Una coppia di coniugi si dice certa di averla vista a Milano, davanti a un supermarket. Sembra fatta, ma dietro l’angolo c’è l’ennesima delusione: è solo una commessa del negozio che le somiglia tanto. Un’altra segnalazione arriva dal Veneto, sempre con motto di certezza. Rosmary Laboragine afferma di averla vista in un ristorante di Padova, ma nel momento della verità viene fuori che si trattava di un’altra donna. A quel punto i riconoscimenti de visu non bastano più. Si procede per divinazione.

L’ingresso in scena dei sensitivi rappresenta la mossa della disperazione. Proprio Laboragine – quella dell’avvistamento in trattoria – la “vede” in un appartamento di Abano Terme, in compagnia di un uomo distinto. «Non la tratta male – spiega – ma lei non è libera. È prigioniera». In precedenza aveva acquisito notorietà mediatica per essersi espressa sui casi del piccolo Tommaso “Tommy” Onofri e di Sarah Scazzi. «Sono disponibile a collaborare con gli inquirenti» afferma in quei giorni la medium, ma non se ne farà nulla. Il romano Mario Alocchi è invece un esperto in radioestesia: rintraccia oggetti o persone per il tramite di talismani e amuleti. Anche lui, all’epoca, è diventato celebre grazie al giallo di Avetrana e nel 2010 dice la sua sul caso di Rina. Agita il pendolino su una foto della donna di Spezzano e poi vaticina: «E’ morta».

Gli avvistamenti registrati nel corso degli anni, seppur numerosi si sono rivelati sempre fallaci. E a nulla è valsa anche la lugubre comparazione del suo dna con quello dei cadaveri senza nome rinvenuti qua e là in giro per l’Italia. Una pratica avviata già nel 2010 dopo il rinvenimento a Roma del corpo di una donna orribilmente mutilato e poi ripetuta spesso in questi anni. L’ultima è di un paio di anni fa, favorita dal ritrovamento di resti umani a Zumpano. Anche stavolta, però, niente da fare: gli accertamenti, disposti dalla Procura di Cosenza, hanno stabilito che si tratta di ossa risalenti al XIX secolo. Il mistero di Rina, dunque, resta insoluto.