’Ndrangheta

Paolo Romeo, cinquant’anni di potere «dietro i rovi»: dai moti di Reggio Calabria alle trame della massoneria segreta

I rapporti con il Gotha delle cosche. Il sistema di potere che governava le istituzioni. I movimenti per sventare lo scioglimento del consiglio comunale. E il modus operandi concordato con l’avvocato Marra: «Noi ce ne stiamo dietro il muro e aspettiamo»

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di Pablo Petrasso
26 gennaio 2024
12:41

Nel luglio 1970, ai tempi dei moti di Reggio Calabria, Paolo Romeo era un ragazzo. Nell’aprile 1992 un politico in ascesa: sarebbe diventato parlamentare. Negli anni 2000, dopo una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, si muoveva ancora nel sottobosco politico. E continuava a mantenere rapporti con esponenti di primo piano della ’ndrangheta reggina.

Diciamolo con le parole utilizzate dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo: «Romeo è uno che costantemente valuta, analizza, prevede, determina, programma. E quando intravede la “possibilità di” opera direttamente, ovviamente nascondendosi dietro una serie di paraventi». Nel nostro podcast Gotha si uniscono le testimonianze storiche della presenza di Romeo in 50 anni di potere a Reggio Calabria (e non solo) e le parole dei giudici che hanno deciso una condanna pesantissima: 25 anni di carcere. Il profilo emerso dal giudizio di primo grado del monumentale processo imbastito dalla Dda è tranciante: Romeo sarebbe l’esempio dello sviluppo moderno del ruolo ’ndranghetistico.


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I rumori di fondo della rivolta e il patto tra ’Ndrangheta ed eversione nera

La narrazione di Gotha ci fa ascoltare i rumori della rivolta: nel luglio del 1970 Reggio Calabria è il teatro della più importante sommossa popolare dalla seconda guerra mondiale. Sullo Stretto transitano i carrarmati, la città è messa a ferro e fuoco. Il confine tra la genuinità della protesta e la strumentalizzazione eversiva e mafiosa è sottile: argomento da cronaca storica e giudiziaria. Stefano Serpa c’era e quei Moti li vive in presa diretta. Oggi è un collaboratore di giustizia, all’epoca era un uomo di fiducia della cosca De Stefano. Partecipa al summit di Montalto del 1969 e ha la ventura di assistere al salto di qualità della ’Ndrangheta unitaria che dismette coppola e lupara e imbraccia la ventiquattrore. Niente più pastorizia: i rapporti con la destra eversiva e l’ingresso nella massoneria deviata aprono nuove porte: i clan calabresi si fanno criminalità globale. Non tutti i boss sono d’accordo: in testa alla rivoluzione c’è Paolo De Stefano. È lui a propugnare il sostegno della ‘ndrangheta tutta alla destra extraparlamentare, presente a quell’incontro, in cambio di forniture di armi e infiltrazioni nelle istituzioni.

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Nel 1970 Romeo è ancora giovanissimo ma Serpa, da collaboratore, ne ricorda il ruolo nel corso della rivolta. Un ruolo di rilievo. «Tutti i rivoltosi – dice Serpa – sapevano che bisognava fare capo a Paolo Romeo, a Vittorio Canale e ad altri». Serpa narra anche del suo supporto a Franco Freda, terrorista di destra e appartenente a Ordine Nuovo, che trascorse un periodo della sua latitanza a Reggio Calabria, grazie al sostegno, tra gli altri, proprio di Paolo Romeo. Il pentito prende nota di visite fatte a Freda dall’avvocato Giorgio De Stefano, da Paolo Romeo e Stefano Delle Chiaie, altro terrorista nero e fondatore di Avanguardia Nazionale, anch’egli all’epoca latitante. Un quadro che si chiarisce, al quale contribuiscono anche le dichiarazioni di un altro storico collaboratore di giustizia, Giacomo Ubaldo Lauro. Lauro dichiara che Romeo sarebbe stato il promotore di un incontro tra il principe nero Junio Valerio Borghese e il gruppo capeggiato da Giorgio e Paolo De Stefano.

Le parole di Barreca: «Romeo come Salvo Lima»

Gli anni passano e Romeo fa il salto. Si ritaglia, sempre secondo i pentiti, un ruolo nel raggiungimento della pax mafiosa. E rischia di finire stritolato da quel meccanismo. In una occasione – il racconto è ancora di Lauro – il boss Pasquale Condello “il Supremo” si mette di traverso quando il gruppo dei Saraceno-Fontana programma l’omicidio di Romeo per la sua vicinanza ai De Stefano ai tempi della guerra di mafia. Quella pace nasce dalla scelta di perseguire interessi economici molto più vantaggiosi di una guerra di mafia. Per Barreca in quel contesto Romeo sarebbe stato il soggetto ideale in grado di realizzare la congiunzione tra mafia e politica, al punto da essere assimilato a Salvo Lima e persino da essere ritenuto con ruolo superiore a quello di Giorgio De Stefano per il raggiungimento della pax mafiosa. L’avvocato – ha aggiunto il pentito – era un massone e appartenente alla struttura Gladio, dunque collegato con i servizi di sicurezza. Di più: «Barreca definiva ottimi i rapporti tra ’ndrangheta e massoneria, in quanto basati su un regime di reciproca solidarietà».

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Paolo Romeo e Giorgio De Stefano: dialoghi tra “invisibili”

Romeo e Giorgio De Stefano sarebbero due invisibili della ‘ndrangheta. Comunicano raramente e con modalità sui generis. Tra loro non si chiamano neppure per nome, scelgono di utilizzare dei soprannomi: De Stefano si faceva chiamare professor Vassalli, Romeo Carracefalo.

Il rapporto di Romeo con l’allora sottosegretario Giuseppe Valentino ha, per i giudici, lo scopo di ampliare il sistema di potere. Nel 2003 Romeo ottiene da Valentino non solo che questi incontri l’allora procuratore della Repubblica di Reggio per carpire informazioni utili su indagini in corso nei confronti di politici eletti con i voti della ‘Ndrangheta, ma che si adoperi anche per rimuovere un prefetto ostile.

Quel sistema che muove i fili e decide nomine e designazioni è a rischio. E si muove per resistere a eventuali scossoni istituzionali. Così riassumono i giudici: «A fronte del rischio che il sistema di potere congegnato potesse essere annullato da iniziative governative il duo Romeo-Valentino non era rimasto con le mani in mano, ma si era attivato per cercare di prevenire il temuto scioglimento dell’ente comunale». Non per proteggere l’allora sindaco Giuseppe Scopelliti, «la cui caduta personale lasciava indifferente Romeo sul piano personale», ma per preservare «il sistema di potere, in esso compresi il coacervo di risorse personali impegnate e la fitta trama di relazioni che consentiva a Romeo, ma anche a Giorgio De Stefano e Giuseppe Valentino di eterogovernare le amministrazioni della città di Reggio Calabria».

Paolo Romeo e Antonio Marra, il potere «dietro i rovi»

C’è un altro dialogo – questa volta tra Romeo e l’avvocato Antonio Marra, amico e collaboratore del primo e ritenuto un consigliori delle cosche – in cui il sistema svela il proprio modus operanti. Marra parla del fallimento del progetto politico “Noi Sud”: non se ne dispiace troppo, perché quel movimento avrebbe costretto lui e Romeo a esporsi in prima persona, «violando le regole del loro agire, che invece erano quelle di operare nelle retrovie, in estrema segretezza, nascosti dietro un muro».

Marra è esplicito: «Noi siamo dietro i rovi, che non ci interessa uscire nella piazza, ci stiamo nascosti dietro il muro e aspettiamo».

Dietro il muro si controllano relazioni con istituzioni e mafia tradizionale. Nascosti alla vista, il vecchio e il nuovo si abbracciano per assicurare all’ente criminale di preservare la propria esistenza e accrescere la propria potenza. È l’essenza della massoneria segreta della quale Romeo avrebbe fatto parte. Il racconto, in una frase, di 50 anni passati ai vertici del potere. Ma sempre «dietro i rovi».  

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