Depositate dalla sesta sezione penale della Cassazione le motivazioni della sentenza con la quale il 22 maggio scorso si è chiuso il troncone del maxiprocesso Rinascita Scott celebrato con rito abbreviato. La sentenza di primo grado era stata emessa dal gup distrettuale di Catanzaro il 6 novembre 2021. Gli imputati condannati hanno beneficiato – per via della scelta del rito abbreviato – dello sconto di pena pari ad un terzo. Giudicati con il rito abbreviato, fra gli altri, i collaboratori di giustizia di Vibo Valentia Bartolomeo Arena, Gaetano Cannatà ed Emanuele Mancuso di Nicotera, figlio del più noto Pantaleone Mancuso, alias “l’Ingegnere”.
La principale accusa era quella di associazione mafiosa, ma non mancavano le contestazioni per diversi tentati omicidi, narcotraffico, intestazione fittizia di beni, estorsione, corruzione, danneggiamento, detenzione illegale di armi ed usura. Gli imputati erano in totale 65 e per diversi di loro la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di secondo grado ordinando un nuovo processo d’appello a Catanzaro per la rideterminazione delle pene. Ha retto il reato di associazione mafiosa, ma per molti imputati è caduta l’aggravante dell’art. 416-bis comma 6 c.p. (cioè l’aggravante derivante dal finanziamento delle attività economiche controllate con il provento di delitti). Processo d’appello da rifare, tra gli altri, per gli imputati Gregorio Gasparro, Maria Carmelina Lo Bianco, Vincenzo Mantella, Giovanni Rizzo, Antonio Patania, Andrea Prestanicola, Giuseppe Scriva. Trenta imputati sono stati invece condannati anche al pagamento delle spese alle parti civili e in particolare ai Comuni di Filogaso, Stefanaconi, Zungri, Limbadi, Pizzo, Sant’Onofrio, San Gregorio d’Ippona, Nicotera, Vibo Valentia, Ionadi, Mileto, Ricadi, Maierato, San Costantino Calabro, Tropea, alla Provincia di Vibo Valentia, e all’Associazione Antiracket.

L’aggravante del finanziamento delle attività economiche

La Cassazione spiega in sentenza che l'art. 416-bis, comma sesto, del codice penale sancisce che “se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà”.
La ratio di tale previsione è da ravvisare – spiega la Suprema Corte – nella necessità “di introdurre uno strumento normativo in grado di colpire più efficacemente l'inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell'economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante da delitti, costituenti una sostanziale progressione criminosa rispetto al reato-base”. Ai fini della configurabilità dell'aggravante non è necessario che l'attività imprenditoriale mafiosa venga finanziata interamente con fondi provenienti da delitto: la norma stabilisce espressamente, infatti, che deve ritenersi configurata l'aggravante anche se il finanziamento è di tipo misto, ossia è alimentato, in parte, dagli utili della gestione formalmente lecita e, in parte, dai proventi delittuosi. “La predetta aggravante deve, inoltre, essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe ed ha, pertanto, natura oggettiva”. Secondo la Cassazione, “la Corte d’Appello di Catanzaro – e prima ancora il gup distrettuale - non hanno fatto corretta applicazione di questi principi di diritto. La Corte d’Appello, nell'esaminare le censure formulate dagli appellanti, si è limitata a rimarcare la natura oggettiva dell'aggravante e ad applicarla, rilevando che, secondo una massima di comune di esperienza, le associazioni criminali di ‘ndrangheta operano nel campo economico utilizzando e investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del programma criminoso”. Per la Suprema Corte, “i giudici d’appello hanno trasformato una massima di esperienza in una regola di diritto e hanno applicato l'aggravante sulla base di un mero automatismo probatorio, prescindendo dall'accertamento del suo presupposto normativo”. La Cassazione censura quindi anche l’operato del giudice di primo grado il quale “nell'applicare la predetta aggravante si è limitato a far riferimento alle intestazioni fittizie accertate nel corso del procedimento e, genericamente, al fenomeno del reimpiego dei proventi delle attività illecite da parte della 'ndrangheta, senza motivare in fatto sul tema decisivo delle dimensioni delle attività economiche oggetto di specifico reimpiego”.

Le sentenze di merito, dunque, secondo i giudici della Cassazione “non hanno descritto la destinazione dei proventi illeciti, sia con riguardo all’individuazione delle attività economiche e del settore di mercato di operatività, ma anche e soprattutto alla dimensione degli investimenti eseguiti in modo da prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrono analoghi beni o servizi, alterando le regole della concorrenza. I giudici di merito non hanno motivato sul fatto che il finanziamento alimentato dalle fonti di provenienza illecita fosse idoneo a conseguire il controllo sulle attività economiche del territorio da parte delle cosche”. Tale “radicale carenza di motivazione sul presupposto normativo dell'applicazione dell'aggravante” ha imposto l’annullamento della sentenza sul punto con riferimento ai ricorrenti Carmelo Chiarella (avvocati Francesco Calabrese e Salvatore Sorbilli), Filippo Di Miceli (avvocati Raffaele Manduca e Giosuè Monardo), Michele Dominello (avvocato Diego Brancia), Michele Manco (avvocato Antonio Barilaro). Tuttavia la Cassazione “al fine di evitare giudicati contrastanti e privilegiare esigenze di giustizia” ha deciso che l’annullamento “disposto in favore degli imputati che hanno proposto un motivo di ricorso sul punto deve essere esteso anche nei confronti degli imputati non ricorrenti sul punto”.
Per tali motivi, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata in ordine all'aggravante di cui all'art. 416-bis, comma 6, del codice penale anche nei confronti degli imputati: Raffaele Giuseppe Barba (detto “Pino Presa”), Paolo Carchedi, Domenico Cracolici, Nazzareno Franzè, Francesco Gallone, Sergio Gentile, Gregorio Giofrè, Giuseppe Lopreiato, Domenico Macrì, Luciano Macrì, Domenico Pardea, Francesco Antonio Pardea, Michele Pugliese Carchedi, Salvatore Morgese, Filippo Orecchio. I ricorsi di tali imputati sono stati rigettati nel resto e dovrà quindi ora essere la Corte d’Appello di Catanzaro a rideterminare nei loro confronti le pene tenendo conto dell’esclusione dell’aggravante legata al finanziamento delle attività illecite.