Quattro organizzazioni e un solo, fruttuoso, business. Dietro il viavai di barche cariche di persone tra Turchia e Calabria c’erano strutture complesse e una divisione dei ruoli simile a quella di un’azienda. In cima all’organigramma c’era chi dirigeva le operazioni. E poi i dipendenti, gli scafisti, formati per il proprio ruolo. I migranti, invece, venivano trattati come merce da spostare nel modo più redditizio possibile. In mezzo, un fiume di denaro che ha finanziato una rete che ora, dopo anni di indagini, inizia finalmente a sgretolarsi.

Questo quanto ricostruito dall’indagine della Dda di Reggio Calabria scaturita nell’operazione Medusa, che ha portato all’arresto di 25 persone. 

Alla base del sistema non una singola rete, dunque, ma quattro diverse organizzazioni, ciascuna con ruoli, leader e dinamiche proprie, ma unite dallo stesso obiettivo: trasformare la disperazione dei migranti in milioni di euro.

Il gruppo georgiano 

A capo della prima delle quattro organizzazioni c’era un uomo georgiano di 35 anni, già noto per precedenti indagini. La sua era una rete ben finanziata e attrezzata per affrontare ogni imprevisto. C’è lui, tra le altre cose, dietro all’organizzazione del viaggio del veliero “Matti”, che ha rivelato un lato meno conosciuto del traffico di esseri umani: quello delle attività preliminari.

Il “Matti” fu noleggiato in Sicilia da due skipper russofoni che dovevano condurre la barca in Turchia per imbarcare migranti e riportarli in Italia. Ma il viaggio si interruppe prima di iniziare, quando un’avaria al motore costrinse l’imbarcazione a farsi soccorrere al largo di Pellaro (Reggio Calabria). Il progetto prevedeva inizialmente il noleggio di una barca a Malta, ma quando gli scafisti furono respinti all’ingresso dell’isola, la rete criminale si riorganizzò immediatamente: nuovi biglietti, nuova rotta da Varsavia a Catania, e il “Matti” pronto a salpare. Un’operazione saltata, ma che ha mostrato l’efficienza logistica e la prontezza del gruppo georgiano.

Il “padrone” curdo-iracheno

La seconda organizzazione, definita dagli investigatori «l’archetipo dell’intera operazione», era guidata da un potente trafficante curdo-iracheno e da un georgiano. Era un apparato tentacolare, capace di organizzare almeno sette sbarchi tra il 2017 e il 2022, con una frequenza quasi seriale. Questo gruppo non solo disponeva di una vera e propria flotta, ma riusciva anche a mantenere contatti stabili con le autorità portuali corrotte.

Tre i rami principali: la “frangia turca”, che gestiva i pagamenti e i contatti con i reclutatori; la “frangia georgiana”, addetta a falsi documenti, addestramento degli scafisti e gestione dei pagamenti; e infine la “frangia russofona”, composta in gran parte da moldavi e ucraini che svolgevano il ruolo di skipper.

Il trafficante curdo, considerato un vero boss, era descritto dai migranti come «il padrone» ed era sempre accompagnato da una scorta armata. Il suo socio georgiano, che si faceva chiamare «traffic manager», si occupava di tutto: dalla selezione degli scafisti fino all’indicazione delle rotte da seguire. Gli scafisti erano trattati come dipendenti; i migranti, invece, come «merce», «pecorelle», o addirittura «agnellini sacrificabili» – espressione usata in un’intercettazione relativa allo sbarco di Siderno del 6 maggio 2022, in cui morirono due persone.

Il trafficante russo 

La terza associazione è stata ricostruita a partire da due sbarchi avvenuti a Roccella Ionica nel giugno e luglio 2019. In entrambi i casi, il regista delle operazioni era un trafficante russo, che dirigeva da remoto le operazioni in mare: comunicava con gli scafisti, forniva le coordinate Gps, controllava che la connessione fosse stabile e impartiva ordini su velocità, distanza dalla costa e comportamento da tenere in caso di tensioni a bordo.

Ogni dettaglio era curato: persino le rivolte dei migranti erano previste, con figure preposte a «mantenere l’ordine» durante la traversata. Il gruppo operava tra Ucraina e Turchia, con l’Ucraina usata come bacino di reclutamento per gli skipper – giovani senza lavoro, facili da attrarre con promesse di denaro – e la Turchia come base per la raccolta dei migranti.

I fratelli ucraini e la fabbrica delle barche

La quarta e ultima rete criminale era gestita da due fratelli ucraini, descritti dagli investigatori come i «capo-promotori» di una vera e propria azienda del traffico. La loro forza stava in una struttura logistica completa: costruivano, allestivano o riparavano le barche in Ucraina, spesso nel porto di Ochakiv, nella regione di Mykolaiv, e le mandavano in Turchia per caricare i migranti.

Anche in questo caso, gli skipper venivano reclutati tra i giovani in difficoltà economica, a cui veniva promesso un compenso pattuito in anticipo. L’intera operazione era sostenuta da fondi consistenti e da una rete di contatti e finanziatori in grado di coprire tutte le spese: dai trasferimenti agli alloggi, fino ai pagamenti «a missione compiuta».