Nel suo nuovo saggio “Elogio all’infanzia” il prof calabrese esplora il potere creativo dell’immaginazione come antidoto alla deculturazione e all’omologazione del pensiero
Tutti gli articoli di Cultura
PHOTO
Per Alessandro Gaudio, docente di Letteratura italiana contemporanea per l’infanzia al Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria, l’infanzia non è soltanto una fase della vita, ma un modo di conoscere e interpretare il mondo.
Nel suo nuovo saggio, “Elogio dell’infanzia. Letteratura e immaginazione come esperienza antipedagogica del mondo” (Algra, 2025), Gaudio esplora il potere creativo dell’immaginazione come antidoto alla deculturazione e all’omologazione del pensiero.
In un’epoca dominata da regole, algoritmi e schemi ripetitivi, l’infanzia resta – scrive l’autore – «l’ultima colonia capace di resistere».
Ne abbiamo parlato con lui, per capire come la letteratura possa restituirci quella libertà dello sguardo che, da adulti, spesso dimentichiamo.
Professor Gaudio, nel suo Elogio dell’infanzia lei afferma che la letteratura e l’immaginazione possono offrire alternative alla pedagogia convenzionale. In che modo, concretamente, la letteratura può educare – o forse “diseducare” – meglio della scuola?
«Credo che ciò possa avvenire in ragione del fatto che la letteratura – facendosi luogo di incubazione di mondi possibili – possa funzionare meglio di una scuola, troppo spesso intesa come recinto di contenimento, dispositivo di potere dove l'individuo è resettato anche psicologicamente. Farsi ispirare dal potenziale che passa dalla letteratura, che sia destinata all'infanzia o non lo sia poco importa, è senz'altro preferibile alla passività cognitiva e alla logica conformistica praticata a scuola».
Il libro sembra interrogare non solo l’infanzia, ma anche l’adulto che l’ha perduta o dimenticata. Cosa significa, per lei, recuperare l’infanzia come categoria critica e conoscitiva?
«Sì, è proprio così. Cerco nella letteratura, non soltanto in quella per l'infanzia ma anche in quella che parla di infanzia, un punto di vista alternativo che può essere colto da chiunque maturi una certa disposizione e che può rivelarsi un mezzo efficace per contrastare le ideologie adulte, quelle troppo dogmatiche, incapaci di mettersi in discussione».
Lei parla dell’infanzia come «ultima colonia capace di resistere» alle tassonomie e alla deculturazione di cui parla Olivier Roy. È un atto di resistenza o un gesto di nostalgia?
«Riflettendo sui modi dell'infanzia e sul modo in cui ne parla la letteratura possiamo provare a resistere al disagio di questa civiltà che vive una crisi della presenza senza precedenti. Grazie alle considerazioni sull'infanzia di grandissimi autori come Gianni Rodari, Dino Buzzati, Mario Lodi, Alberto Savinio e altri possiamo provare ad accogliere i valori di una infanzia intesa come spazio naturalmente connesso alla nostra identità che resiste a quel processo di segno opposto che sembra volerne l'evaporazione, da un lato, o, dall'altro, la cosificazione».
In che senso il suo approccio all’infanzia è “epistemologico” e non semplicemente pedagogico o letterario? Cosa ci insegna, sul piano della conoscenza, tornare a guardare il mondo con gli occhi di un bambino?
«La letteratura, l'arte hanno una funzione epistemologica alla quale non possiamo rinunciare perché noi, e più ancora i nostri figli, siamo stati esclusi da troppi luoghi della realtà. La letteratura, il romanzo, dal mio punto di vista, estendono la portata della realtà, la porzione agibile, lavorando, come dicevo prima, sul suo potenziale. Questo aiuta a recuperare una disposizione fanciullesca che poi perdiamo. Se, invece, provassimo a conservarla potremmo provare ad agire sulla realtà che ci circonda, magari potremmo anche trasformarla. Insomma, oltre alla letteratura, è necessario il nostro impegno, il nostro apporto attivo».
Nel suo saggio ricorrono termini come exotopia, atopia, permeabilità, assimilazione empatica. Ci può spiegare come questi concetti si intrecciano con la dimensione infantile e con la critica alla civiltà contemporanea?
«L'exotopia è una sorta di empatia allargata, l'atopia è la posizione in cui si può nominare ciò che ancora non esiste: insieme consentono di andare oltre la superficie delle cose e di saggiarne, dunque, la permeabilità. È davvero singolare il modo in cui ciascuno di questi aspetti riguardi tanto l'infanzia quanto un modo, forse il migliore, per fare fronte al disagio di una civiltà che sta attraversando una fase di disagio da più punti di vista».
Lei richiama autori come Agamben, Freud, Huxley, Pasolini e Rodari. Quanto c’è, nel suo lavoro, di filosofia, di letteratura e di impegno civile?
«Mi occupo da sempre di letteratura: ho cercato di farlo vagliando il suo tasso di compromissione con gli attrezzi propri di altre discipline: servendomi della filosofia, della psicoanalisi, della linguistica, della semiotica ho provato ad allargare le maglie dei testi con i quali mi sono confrontato, in modo da osservarli più accuratamente, cercando di coglierne le implicazioni più recondite. D'altronde, in un'epoca in cui trionfano gli specialismi, la disposizione a saggiare la profondità e la complessità del mondo che ci circonda e, dunque, quella dei testi è indispensabile. Ho immaginato tutti questi attrezzi come contenuti in uno stesso spazio, quello di una stanza dei giochi: non intesa come luogo chiuso, angusto, solitario; bensì, come luogo aperto, naturalmente complesso, connesso fisiologicamente e magicamente ai mille colori della nostra identità».
Scrive che l’infanzia «non sequenzia la realtà per codificarla, ma la crea». È un invito a rivalutare la fantasia come forma di conoscenza? E come possiamo, da adulti, riattivare quella capacità creativa?
«L'infanzia è il luogo di elezione dell'immaginazione e della fantasia, quasi spazio dell'irrealtà da cercare di valorizzare anche da adulti. Attenzione: infanzia è cosa ben diversa rispetto a infantilismo: mentre la prima è una condizione di potenza che parrebbe quasi in via di estinzione e che non si esaurisce, come ho cercato di spiegare, nell'ingenuità, la seconda è la permanenza nell'adulto di caratteri psichici tipi di un'età ormai andata. Se riuscissimo a recuperare la modalità di interrogare sé stessa propria della gioventù evitando di scadere nell'infantilismo saremmo senz'altro degli adulti migliori. Perché non possiamo apprendere il senso pieno dell'infanzia lasciandoci aiutare da autori come Silvio D'Arzo o Giovanni Arpino?»
In un tempo in cui l’intelligenza artificiale moltiplica regole, schemi e codici, crede che l’infanzia possa ancora offrire una via di fuga dal pensiero algoritmico?
«L'infanzia è sicuramente una crepa nelle tassonomie, nei dogmi imposti da troppi istituti deputati alla formazione, nella rigidità delle ideologie adulte. Se riuscissimo ad apprezzarne il carico di dubbio e di riflessione finiremmo per riappropriarci di ciò che non possiamo certo di recuperare per mezzo dell'intelligenza artificiale: il senso critico».