Nel 1963 la voce di Gino Paoli regala una piccola poesia musicata, intrisa di allegria ma anche di malinconia per la bella stagione destinata a finire. Una canzone che racconta la traiettoria di un sentimento: nasce, cresce, sfuma
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C’erano estati in cui il tempo sembrava non finire mai, in cui i pomeriggi si stendevano lenti sulla spiaggia e i pensieri erano pochi, leggeri come le onde che lambivano la riva. Era l’Italia degli anni Sessanta, un Paese in fermento, col motore acceso verso la modernità, ma con ancora la sabbia attaccata ai piedi di un’innocenza non ancora perduta. E in quell’estate del 1963, mentre le radio gracchiavano tra una canzone di Mina e una pubblicità della Vespa, arrivava una voce diversa, calda e svagata: quella di Gino Paoli. Portava con sé "Sapore di sale". E da quel momento nulla sarebbe stato più lo stesso.
Non era solo una canzone. Era un’atmosfera. Un odore, un ricordo, un fotogramma in bianco e nero di un’Italia che guardava al futuro ma si abbandonava ancora volentieri all’ozio e al desiderio. Gino Paoli non aveva scritto un semplice tormentone estivo, nonostante poi lo diventò benché. Aveva scritto e interpretato una piccola poesia musicata, sussurrata più che cantata, che parlava di un’estate qualunque e, per questo, di tutte le estati.
«Sapore di sale, sapore di mare / che hai sulla pelle, che hai sulle labbra», cantava Paoli, e bastavano quei versi per far risuonare nella mente lo schiocco delle ciabatte sul lungomare, la risata lontana di una ragazza distesa sull’asciugamano, la lentezza della sera che si avvicina. Ma dietro quella semplicità c’era una profondità inaspettata: il gusto del sale non è solo piacere, è anche traccia, residuo, sapore che resta. Come un amore estivo, che ti si attacca addosso e non va più via.
L’estate degli anni Sessanta era quella dei jukebox nei bar del lido, dei gelati Sammontana, delle prime auto che si affollavano nelle località balneari: la Fiat 500 carica di valigie, materassini e sogni di libertà. Era il tempo delle gite in Vespa, delle domeniche al mare con tutta la famiglia, del primo bikini che faceva scandalo, dell'ombelico di fuori, non ancora sdoganato in televisione dalla Carrà (per quello bisognerà attendere ancora qualche anno). Ma era anche, soprattutto, il tempo dei primi amori. E "Sapore di sale" diventava la colonna sonora perfetta per questi amori sospesi, fugaci, eppure indelebili.
Paoli lo sapeva: l’estate non è solo allegria, è anche malinconia, perché si sa che finirà. E nel suo canto c’è già il presagio della fine, in quella voce svogliata eppure intensa, che sembra cantare da un luogo interiore, più che da una spiaggia. Non c’è enfasi, non c’è dramma: solo la constatazione che il tempo passa, che il sapore di sale resta, che la persona amata se ne va via un poco alla volta, ma ti resta addosso per sempre, come l’estate.
«Sapore di te, / che cosa resta di tutto il tempo che è passato su di noi». In questi versi, si avverte quasi il passaggio della vita stessa. Paoli non racconta solo una giornata al mare, ma la traiettoria di un sentimento: nasce, cresce, sfuma. È una canzone che parla del tempo, più che dell’amore. O, meglio, di come l’amore si consuma dentro il tempo, come il sole che scolora le cose.
Gino Paoli e l’estetica dell’assenza
Gino Paoli, con il suo stile inconfondibile, costruisce una forma di narrazione sottile, dove le parole sono poche, ma scelte con cura, e la musica accompagna senza invadere. L’arrangiamento di Ennio Morricone – sì, proprio lui – aggiunge un tocco quasi cinematografico, con quegli archi che si insinuano, discreti, tra le note della chitarra e il sax sensuale che entra come un sussurro. Non è un caso: Morricone comprese la dimensione visiva di questa canzone, la sua capacità di evocare immagini più che raccontare fatti.
Paoli è maestro nell’arte dell’assenza. Non dice tutto, non spiega. Lascia che lo spazio tra le parole sia riempito dall’ascoltatore, dalle sue esperienze, dai suoi ricordi. È una poetica minimalista, ma profonda. Dietro l’apparente leggerezza si nasconde la consapevolezza che ogni estate porta con sé una promessa e una perdita.
"Sapore di sale" è una canzone che invita a fermarsi, ad ascoltare. Non chiede attenzione, la conquista. Non vuole essere ovunque, eppure si fa ricordare. È entrata nella memoria collettiva come un sapore, appunto, difficile da definire ma impossibile da dimenticare.
In quell’Italia che si risvegliava dal dopoguerra e si scopriva moderna, "Sapore di sale" era il sottofondo di un cambiamento silenzioso. Parlava di un modo nuovo di vivere il tempo libero, l’amore, la vita stessa. Era il simbolo di una stagione irripetibile, non solo quella climatica, ma anche storica. E oggi, riascoltandola, sembra di tornare là, su quella spiaggia lontana, con la sabbia calda sotto i piedi e il cuore un po’ più leggero.
Perché alla fine, lo sappiamo tutti: il sale sulla pelle va via con l’acqua, ma quello dentro i ricordi resta. E Sapore di sale è il ricordo di un’Italia che non c’è più, ma che, per fortuna, possiamo ancora ascoltare.