Nel dibattito pubblico odierno – in Italia come nel resto dell’Occidente – la libertà di espressione rappresenta un terreno di scontro tra istanze di tutela e rischi di repressione. Vibranti disapprovazioni verso discorsi carichi d’odio, accuse incrociate, boicottaggi sociali: sono solo alcuni segnali di una tensione crescente.

Per questo, l’interrogativo cruciale è capire fino a che punto si può essere davvero liberi di dire ciò che si pensa. Per approfondire questo nodo, si può analizzare la cosiddetta “cancel culture”, fenomeno nato negli Stati Uniti e diffuso soprattutto in Occidente, che mira a denunciare e isolare chi esprime opinioni ritenute offensive verso minoranze o gruppi vulnerabili. In teoria, è una forma di giustizia sociale; in pratica, può trasformarsi in una censura informale che soffoca il dissenso e impoverisce il confronto.

Da questo punto di vista, vale la pena richiamare alcune celebri figure che hanno alimentato il dibattito. Hannah Arendt, filosofa tedesca naturalizzata statunitense, autrice de “Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male”, per esempio, ha messo in guardia contro quel conformismo che anestetizza il pensiero critico e che può generare un paradosso: una società che, nel nome della tolleranza, diventa intollerante verso ogni deviazione dal pensiero dominante. Quindi, il pericolo è definire i tratti di una libertà che si autocensura per paura di essere fraintesa o punita.

A guardar bene, questa tensione non è affatto un’esclusiva occidentale. In molti altri contesti la censura si manifesta in forme ben più esplicite e autoritarie, spesso imposte dall’alto, col controllo sistematico e istituzionalizzato dell’informazione. In casi siffatti, la “cancellazione” è una strategia politica dello Stato per mantenere il potere, non una reazione sociale spontanea.

Il filosofo e sociologo francese Michel Foucault ha analizzato come il potere si eserciti non solo attraverso le istituzioni, ma anche tramite il controllo del linguaggio e dei corpi, normalizzando comportamenti e pensieri. Da quanto detto derivano distinzioni nette: da una parte una censura “verticale”, dall’altra una “orizzontale”, spesso mascherata da sensibilità.

Nell’era digitale, i social network sono diventati uno dei principali campi di battaglia per la libertà di espressione. Gli algoritmi decidono quali contenuti hanno maggiore visibilità e le piattaforme moderano secondo criteri che talvolta risultano opachi e poco trasparenti.

Il poeta statunitense naturalizzato britannico Thomas Stearns Eliot, nel secolo scorso, ha avuto modo di sostenere che la lingua è il veicolo della cultura. Eppure, oggi la velocità e la viralità rischiano di appiattire la pluralità del pensiero, privilegiando l’emozione, la polarizzazione e le reazioni istantanee e indirizzate. Il risultato è un dibattito pubblico frammentato e superficiale, dove la libertà di parola si misura in click e condivisioni, più che in contenuti e argomentazioni. In questo scenario, il confine tra sensibilità e censura si fa sempre più sottile e sfumato.

Detto ciò, va sottolineato che le comunità marginalizzate hanno indubbiamente diritto a protezione e riconoscimento. Tuttavia, quando il rispetto si trasforma in un divieto di critica incondizionata, si può giungere a criminalizzare la satira, l’ironia e il dissenso. Paul Celan, immarcescibile poeta ebreo sopravvissuto all’Olocausto, definiva la parola come “ferita” e “arma”, ma anche come mezzo per esprimere il trauma. Quindi, limitare la parola significa ridurre le occasioni di comprensione, confronto e, infine, di una possibile guarigione collettiva.

Una delle sfide cruciali per le società contemporanee è difendere un pluralismo autentico, fatto di ascolto, confronto e rispetto anche verso ciò che può disturbare o provocare. Non si tratta di tollerare ogni cosa senza criterio. Tutt’altro: subentra il bisogno di creare uno spazio in cui il dissenso non venga automaticamente escluso.

A tal proposito, il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas ha parlato della necessità di una “sfera pubblica” razionale e libera, in cui il dialogo possa fiorire senza paura. Solo così, raggiungendo questo precario equilibrio, si potrà evitare che la sensibilità diventi censura e garantire che la libertà di parola resti il fondamento di una società giusta e inclusiva.