C’è una stanza, da qualche parte in Texas, con le luci accese alle tre di notte. È la notte dell’Indipendenza, ma dentro non ci sono bandiere né inni, solo un uomo scalzo su un pavimento di cemento lucido. Tiene in mano un telefono, l’indice fermo sopra uno schermo che vale più di un comizio. Un clic, un sondaggio. Un altro clic, un proclama: «Nasce l’America Party».
Così, nel silenzio di una stanza illuminata solo dai led, un uomo regala all’America una nuova dichiarazione di guerra. Senza milizie, senza marce. Solo Musk e il suo esercito di avatar.
Elon Musk — imprenditore, visionario, capriccio di questo tempo avido di padroni — promette libertà. Promette di restituirla. La libertà di non essere né Repubblicani né Democratici, di non ingoiare deficit gonfiati come mongolfiere, di non farsi governare da promesse che pesano come pietre e svaniscono come polvere.

Lui, Musk, l’ha detto chiaro: «Quando si tratta di mandare in bancarotta il nostro Paese con sprechi e corruzione, viviamo in un sistema monopartitico, non in una democrazia». Parole secche, da manager esasperato più che da padre della patria. Ma in questo Paese di sogni e debiti, anche le parole sanno incendiare praterie.

Non è una rottura improvvisa. Musk e Trump si sono amati, all’inizio. Il miliardario elettrico ha riempito casse, con un fiume di dollari ha spinto quel vecchio leone arancione dentro lo studio ovale. In cambio ha avuto un seggio d’onore, un posto a tavola, un ufficio cucito su misura dentro la Casa Bianca: Dipartimento dell’efficienza governativa. Suona bene, sa di fantascienza e burocrazia sterilizzata. Un incantesimo. Durato poco.
Poi sono arrivati i conti. I veri conti. Un bilancio mastodontico — il big beautiful bill — benedetto da Trump e stropicciato da Musk come carta da fast food. Novecentoquaranta pagine di promesse, tagli alle tasse, muri anti-migranti, sogni di un’età dell’oro impacchettata per i talk show. Per Musk, invece, l’età dell’oro odora di bancarotta.

E allora lo strappo: «Perderete le elezioni, anche fosse l’ultima cosa che farò». Un anatema più che una previsione. Trump, ferito nell’ego, lo ha liquidato: «È arrabbiato per i sussidi alle auto elettriche». Poi lo ha perfino minacciato di deportazione. La bromance è morta con un tweet.
Ora Musk prova a fare il terzo incomodo. A dire agli americani frustrati — e sono milioni — che un’altra via è possibile. Si è scelto un nome pomposo, America Party, come se fosse lui a portare in salvo una nazione annegata nelle carte bollate di Washington. È un atto di superbia, ma in fondo anche di disperazione. Perché negli Stati Uniti i terzi partiti sono meteore: accendono sogni, bruciano in volo, cadono in silenzio.
Gli americani lo sanno. Hanno provato con Perot, Nader, Ross, Johnson. Tutti evaporati. Il sistema bipartitico è un incantesimo di ferro: chi prova a spezzarlo deve avere spalle larghe, idee lucide, soldi infiniti. Musk ha almeno una di queste tre cose. Forse due.

Ma Elon Musk, oggi, resta fuori da quel cancello. Non può diventare presidente. Non ancora. Perché la Costituzione parla chiaro: per varcare la porta dello studio ovale bisogna essere natural born, figli della terra d’America. Musk è nato in Sudafrica, figlio di padre sudafricano e madre canadese. Non c’è base militare a Pretoria da usare come scappatoia, non c’è revisione ad personam che tenga. L’unico precedente — John McCain — era figlio di due cittadini americani, nato in una zona sotto controllo Usa. Musk no.

Così, per ora, gioca a fare il re dietro le quinte. Raduna delusi, raccoglie voti virtuali, minaccia ritorsioni elettorali. Promette un terzo partito, ma dietro la bandiera dell’America Party c’è il suo volto: un imprenditore che confonde la politica con una start up, il potere con un algoritmo, la democrazia con un sondaggio su X.
Ma c’è una domanda che non possiamo ignorare: davvero basta un sondaggio per rifare la libertà? Bastano milioni di follower, un meme, una manciata di slogan ben confezionati? O la libertà vera, quella sporca di compromessi e voti sudati, nasce altrove — nelle strade, nei quartieri, nei parlamenti svuotati da chi non ha mai avuto bisogno di contare i propri miliardi per farsi ascoltare?

Musk vende sogni come vende auto: veloci, lucidi, patinati. Ma l’America, questa America, si farà comprare ancora una volta? O alla fine resterà solo un’altra App da aggiornare, da disinstallare, da dimenticare?
Intanto resta il paradosso. L’uomo più ricco del mondo che promette di ridare libertà a un popolo incatenato dal debito che lui stesso denuncia. L’uomo che sussurra: «Vi restituirò l’indipendenza» mentre mostra un passaporto straniero. Il re del mercato che prova a farsi re di cuori.

Questa notte di luglio lascia dietro di sé una promessa e una crepa. Forse domani, quando Musk chiuderà la porta di quella stanza, la rivoluzione resterà un tweet ingiallito. Ma forse no. Forse, da qualche parte, un ragazzo, una ragazza, un operaio dell’Ohio, un contadino dell’Iowa, stanno già premendo like. E allora la domanda non è più se Musk potrà diventare presidente. La domanda — la più scomoda di tutte — è se un giorno non sarà l’America intera a diventare un prodotto da scaricare, aggiornare e buttare via quando non serve più.