Quando cammina in mezzo alla folla, Matteo Zuppi sembra un parroco di quartiere più che il presidente della Conferenza episcopale italiana. Sorride, saluta, si ferma a parlare. A Roma, dove è nato nel 1955, si dice che la sua popolarità sia cresciuta di pari passo con la sua disinvoltura: uno che non si è mai tolto la felpa nemmeno sotto la porpora cardinalizia, uno che prega e ride, che predica e ascolta. E uno che, da ragazzo, pensava anche a sposarsi. Poi arrivò la Comunità di Sant’Egidio e da lì cambiò tutto.

Ex sessantottino, formatosi nell’urgenza degli ideali e nella concretezza del servizio, Zuppi ha imparato a mischiare liturgia e vita, preghiera e azione. Lo ha fatto fin da quando – prete giovanissimo – lavorava con i poveri di Trastevere, spingendosi poi fino in Mozambico per mediare, con successo, uno dei più complicati accordi di pace del Novecento africano. Ma anche quando nel 2023 Francesco lo ha voluto suo inviato a Kiev per cercare di aprire spiragli nella tragedia ucraina, Zuppi non ha tradito la sua indole: ha ascoltato, stretto mani, guardato negli occhi. Senza mai cedere al protagonismo.

Il rapporto con Papa Francesco è stato di profonda affinità e stima. I due si erano conosciuti anni fa in Argentina, in una sala semplice dove Bergoglio arrivò in ritardo per colpa del “subte”, la metro di Buenos Aires. Da allora, Francesco ha sempre tenuto Zuppi vicino, affidandogli incarichi delicati, e infine nominandolo cardinale e presidente della Cei. Lo fece perché Zuppi rappresentava quella Chiesa “in uscita” che lui stesso aveva teorizzato e cercato di realizzare fino all’ultimo giorno del suo pontificato. «Parlare del Vangelo non è fare una lezione, ma camminare. Gesù non ha detto “aspettate”: ha camminato con chi cercava», ha detto Zuppi in una delle sue tante omelie informali, spesso centrate sul Vangelo vissuto più che spiegato.

Per lui, ogni celebrazione è pubblica, ogni liturgia condivisa. Celebra nella basilica di San Petronio a Bologna, tra i turisti e i senzatetto, e non ama le stanze chiuse. Dice messa, parla con tutti, e quando può ascolta Chopin. Ma non ha un account social: «Non è il mio mondo. Però so che su Facebook mi prendono in giro con affetto».

Nato da una famiglia numerosa, cresciuto con una madre brianzola “generale” e un padre giornalista, Zuppi racconta spesso con umorismo i Natali complicati passati a evitare le “concubine”, come le definiva sua madre, nelle tavolate di casa. «Alla fine abbiamo proposto una sanatoria», sorride. Quel senso di famiglia larga, però, non lo ha mai abbandonato. Per questo il suo impegno per i migranti, per le periferie, per chi resta ai margini è sempre stato concreto e quotidiano. Zuppi è anche uno dei pochi cardinali ad aver parlato apertamente della necessità di accoglienza verso le persone LGBTQIA+.

Non si discosta dalla dottrina, ma insiste sulla misericordia. Ha battezzato bambini nati da maternità surrogate e non si è mai tirato indietro nel dialogo: «Gesù si è lasciato avvicinare dai peccatori. E noi no?». È la Chiesa della porta aperta, della fraternità possibile, del perdono prima della condanna. In tempi di polarizzazioni, Zuppi rappresenta una mediazione credibile.

È vicino alle idee di Francesco, ma amato anche da chi guarda con sospetto al pontificato del papa argentino. Ha esperienza diplomatica, ma è profondamente radicato nella pastorale. Insegna che la pace non è scontata e che dopo la caduta del muro di Berlino se ne sono alzati molti altri, visibili e invisibili. «Solo i ponti possono neutralizzare l’odio», dice. E ci crede.

Nel gioco online del FantaPapa è tra i favoriti. Ma se gli chiedi di quel voto popolare, si schermisce. «Sono figlio di giornalisti», dice con ironia, «come potrei non sopportarvi?». In realtà, Zuppi sa bene quanto ogni parola, ogni gesto, ogni presenza conti. Il suo papato – se mai arriverà – sarà fatto di piccoli gesti quotidiani. Di ascolto. Di fedeltà al Vangelo e alle sue spine. E forse, in tempi come questi, è proprio ciò di cui il mondo ha bisogno.