Benjamin Netanyahu è l’uomo che ha prolungato la guerra a ogni costo, sacrificando migliaia di vite pur di restare al potere e sfuggire ai processi che lo attendono. Guerre su guerre. La guerra come copertura, come scudo personale: dietro il linguaggio della sicurezza nazionale, c’è la paura di finire davanti ai giudici. Di affrontare i processi, di finire in carcere.

Con lui, Israele è diventato un Paese lacerato, dove la retorica del nemico serve a mascherare l’erosione morale e istituzionale. Netanyahu governa come se la sua sopravvivenza politica fosse una questione di Stato, e la guerra l’unico modo per ritardare il giorno del giudizio — anche quello penale. Su di lui pende infatti l’ombra pesante del Tribunale Penale Internazionale, che lo accusa di crimini di guerra a Gaza e che prima o poi dovrà processarlo.

Ha continuato per anni a mostrarsi come un condottiero assediato, deciso a trascinare con sé il Paese pur di non cedere un passo. In realtà, più che un leader in battaglia, Netanyahu appare oggi come un uomo in guerra contro il suo popolo, arroccato in una battaglia personale contro il mondo intero. Teme la giustizia e la propria fine politica, per cui sarebbe capace anche di sabotare il piano di pace americano. Da uno come lui c’è da aspettarsi di tutto.