Non è bastato il voto della Camera per blindare la riforma più simbolica del governo Meloni. La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, approvata con 243 sì e 109 no, non ha raggiunto il quorum dei due terzi richiesto dalla Costituzione per evitare il ricorso al referendum. Ora, dopo l’ultimo passaggio in Senato atteso entro novembre, sarà il popolo a decidere.

Un risultato che cambia radicalmente lo scenario politico. Per Giorgia Meloni e per il ministro Carlo Nordio la riforma della giustizia è una bandiera, presentata come la svolta capace di rendere il sistema «più efficiente, trasparente e moderno». Ma la prospettiva di un voto popolare introduce un’incognita pesante: se vincesse il no, la premier incasserebbe una sconfitta non solo sulla giustizia, ma sul cuore stesso del suo progetto politico.

Il clima in Aula, già teso, è esploso al momento della proclamazione. Dai banchi del governo si sono levati applausi e sorrisi, subito bollati dall’opposizione come «indecenti» vista la contemporaneità con la crisi internazionale di Gaza. Deputati del Pd e del Movimento 5 Stelle hanno lasciato i loro posti, si sono diretti verso i ministri, circondando i banchi dell’esecutivo. A quel punto è stato necessario l’intervento dei commessi per evitare il contatto fisico. Seduta sospesa per alcuni minuti, tra urla e accuse incrociate.

La leader dem Elly Schlein ha parlato di «una riforma di pura propaganda, costruita sulla retorica dei nemici interni». «Questa destra – ha detto – usa i magistrati come capro espiatorio per coprire i propri fallimenti. Non si affrontano i problemi veri della giustizia: tempi infiniti, carceri al collasso, mancanza di personale. È solo un’ossessione di potere».

Ancora più dura la reazione dei 5 Stelle, che hanno accusato il governo di «complicità morale» con Netanyahu per il mancato voto italiano alle Nazioni Unite sulle misure contro Israele. «Qui festeggiano mentre a Gaza si muore», ha urlato Riccardo Ricciardi, aggiungendo benzina sul fuoco.

Dal centrodestra la linea è opposta. Per il vicepremier Antonio Tajani quella approvata è «una riforma storica, attesa da trent’anni, che Forza Italia dedica a Silvio Berlusconi». «Non mi faccio intimidire – ha replicato alle accuse –. Io non ho applaudito, ho solo salutato Nordio. Ma questa riforma è la quintessenza della nostra battaglia».

Lo stesso ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha parlato di «un passo di civiltà»: la separazione delle carriere, ha ribadito, «pone accusa e difesa sullo stesso piano, davanti a un giudice finalmente terzo e imparziale». La riforma introduce anche l’Alta Corte disciplinare e la creazione di due Consigli superiori della magistratura separati, sorteggiati in parte tra i magistrati.

Sui social, Giorgia Meloni ha rilanciato con toni trionfalistici: «Avanti con determinazione. Vogliamo consegnare all’Italia una riforma storica e attesa da anni». Ma dietro il post si nasconde una consapevolezza chiara: la partita vera sarà fuori dal Parlamento.

Il referendum, infatti, sarà un test politico a tutto campo. Le opposizioni sono già pronte a trasformarlo in un voto su Meloni, più che sulla giustizia. E la premier sa che una bocciatura alle urne sarebbe interpretata come un colpo alla sua leadership. Per questo il fronte del governo si muove già per preparare la campagna, cercando alleati nella società civile e tra le categorie produttive.

Il Transatlantico, al termine della seduta, ha restituito l’immagine di due Italie contrapposte. Da una parte i deputati del centrodestra che parlavano di «giornata storica», dall’altra i parlamentari dell’opposizione che definivano la scena «una festa fuori luogo». In mezzo, i cittadini che nei prossimi mesi saranno chiamati a decidere se cambiare o meno l’assetto della giustizia italiana.

Per Giorgia Meloni la sfida è appena cominciata. Il voto in Parlamento, pur importante, è stato solo un passaggio intermedio. Ora sarà il Paese intero a stabilire se la riforma sopravvivrà o cadrà. E, con essa, molto del destino politico della premier.