Tra propaganda e tregue a orologeria, la “pace” di oggi somiglia inquietantemente a quella di Augusto: concessa, condizionata e incapace di portare vero respiro ai popoli sotto assedio
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C’era una volta, ai tempi di Augusto, qualcosa che gli storici chiamarono Pax Romana. Un nome altisonante, quasi poetico: la pace universale, l’armonia degli imperi, la quiete dopo le guerre civili. Peccato che quella “pace” fosse più simile a una lunga pausa pubblicitaria tra due massacri. Roma non pacificava: addomesticava. E la pace, in fondo, non era altro che la resa incondizionata degli sconfitti, la loro riduzione al silenzio sotto il peso delle aquile imperiali.
Era, in breve, la pace dei vincitori: un ordine costruito sulle rovine altrui, mantenuto da legioni, spade e un buon ufficio stampa. Augusto aveva capito una grande verità politica: che per chiamare guerra la guerra serve un nemico, ma per chiamarla pace basta un decreto e un monumento al Foro.
Duemila anni dopo, pare che la lezione non sia andata perduta. Nel teatro infinito del Medio Oriente, si parla di pace con la stessa disinvoltura con cui l’imperatore parlava di virtus. Solo che oggi non si costruiscono templi a Marte Ultore, ma si costruiscono muri, corridoi umanitari e “pause tattiche” nei bombardamenti.
La cosiddetta “pace” che si vorrebbe imporre a Gaza ricorda inquietantemente la Pax Augusta: non è l’assenza di conflitto, ma l’assenza di respiro. È la pace che arriva dopo che un popolo è stato ridotto in macerie, dopo che le voci dei vivi si confondono con la polvere dei morti. È la pace dei satelliti, delle conferenze stampa e delle parole calibrate: “cessate il fuoco”, “de-escalation”, “negoziati per la sicurezza”. Parole che suonano come balsamo, ma che odorano di bruciato.
Come allora, anche oggi si racconta che la forza porti stabilità. Roma lo chiamava ordine. Oggi si chiama “difesa preventiva”. Cambiano le armi, ma non la grammatica del potere: la pace è concessa, mai condivisa. È una pace condizionata, firmata con una mano e negata con l’altra.
Augusto aveva Virgilio, che scriveva l’Eneide per celebrare il destino glorioso di Roma. Oggi abbiamo i comunicati ufficiali e i tweet ministeriali che raccontano una storia altrettanto epica: quella di chi “difende la civiltà occidentale” contro la barbarie. E come ai tempi di Roma, chi osa parlare dei caduti di Cartagine (o di Gaza) rischia di essere accusato di tradimento.
Certo, la Pax Romana durò due secoli. Quella di oggi, invece, si misura in giorni, in tregue intermittenti, in pause che non servono per respirare ma per ricaricare le batterie dei droni. È una pace a orologeria, con scadenza giornaliera. Eppure, in questa farsa tragica, tutti sembrano recitare la propria parte con convinzione: il mondo applaude, gli ambasciatori sorridono, i politici parlano di “speranza”, mentre i medici di Gaza operano senza luce. Forse anche allora, sotto Augusto, qualcuno applaudiva mentre i Galli venivano “pacificati”.
La storia, si sa, ama ripetersi. Ma la seconda volta non come tragedia, quella l’abbiamo già vista, bensì come routine diplomatica, come conferenza stampa con traduzione simultanea. E così, anche oggi, la pace si conquista con la forza, si misura in chilometri quadrati e si proclama in diretta mondiale. Ma chiamarla pace non la rende tale, proprio come chiamare pax quella di Roma non cancellava le cicatrici lasciate dalle legioni. In fondo, tra Augusto e il XXI secolo, c’è una sola differenza: all’epoca, almeno, la propaganda aveva uno stile letterario impeccabile.
Oggi, invece, la Pax Romana 2.0 arriva in formato PDF, con l’intestazione “Comitato internazionale per la pace”. E mentre gli imperatori moderni discutono di tregue e confini, a Gaza, come nelle province di allora, la gente aspetta che il cielo smetta di cadere. Anche questa, forse, è una forma di pace: la pace del silenzio dopo il rumore delle bombe.